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Cattiva coscienza

di Luigi Ercolani


Cosa succederebbe se il concetto alla base dello statunitense Inside Out venisse declinato in un paese dalla forte tradizione cattolica? Deve esserselo chiesto anche Davide Minnella, che su quest'idea ha strutturato una commedia godibile, lontana dagli schemi preconfezionati dello standard italiano e, soprattutto, ricca di spunti di riflessione.

Cattiva coscienza è, di per sé, un paese che avrebbe potuto vedere la luce unicamente in un contesto culturale marcatamente segnato dalla fede cristiana, e nello specifico proprio dalla confessione cattolica, facendo per giunta un'operazione di riscoperta di valori positivi trasversali che per certi versi è antitetica rispetto alla sensibilità dei tempi attuali. Il sopracitato grande successo animato hollywoodiano, essendo incentrato sui sentimenti, si rivela infatti molto attinente con la sensibilità del momento per l'interiorità individuale, la quale però, se portata all'eccesso, rischia di sfociare o in una suscettibilità sregolata verso l'esterno (“Quello che dici/fai mi offende”) o in un bieco relativismo permissivo verso l'interno (“Quello che dico/faccio va bene se mi fa sentire felice”).

Il film di Minnella in tal senso è un'eccezione, in quanto riporta al centro del discorso i concetti di Bene e di Male, pur se chiaramente con il tono leggero adatto ad una commedia. Da questo punto di vista, tuttavia, il lungometraggio allontana il rischio di trasformarsi in una produzione irrigidita da un moralismo stantio e manieristico, e si connota invece come una riflessione seria e puntuale su che cosa distingua una buona da una cattiva coscienza, depistando chi guarda.

Sin dall'inizio, infatti, allo spettatore viene mostrata una coscienza che fa fare sempre scelte sane per la salute del corpo, che non prende mai decisioni avventate basate su impulsi emotivi, che medita rimane sempre in controllo di sé stessa. Tale coscienza è indicata come esempio per le altre, specie per quelle i cui protetti (ovvero noi, gli esseri umani) sono invece fallaci, pieni di pecche, imperfetti.

Tuttavia questa coscienza perfetta rende la propria persona infelice, in quanto essa si sente incatenata, obbligata a fare sempre quella che in teoria sarebbe la scelta più giusta. E così, via via che la trama si sviluppa abbiamo la sensazione che la cattiva coscienza non sia tanto quella che sbaglia, quanto quella che finisce per comprimere l'essere umano, rendendolo quasi schiavo. Il discernimento sano, sembra quasi dire il regista, è invece quello che sa mediare tra le diverse necessità del momento, che sa alternare i momenti in cui è bene concedersi un piacere o abbandonarsi ad una forte emozione da quelli in cui, invece, è fondamentale mantenere il controllo di sé.

Perché ciò avvenga, tuttavia, è necessario abbandonare l'individualismo e abbracciare l'idea di vivere in relazione con il prossimo. Non è infatti possibile definire in maniera adeguata, appropriata, i diversi tipi di momenti senza tenere conto che non viviamo da soli, ma che siamo viceversa chiamati a confrontarci con l'altro, a rispettarne la dignità e contemporaneamente a chiedere il rispetto per la nostra.

Solo in questo modo, con un reciproco riguardo che significa anche non imporre la propria individualità su chi ci circonda, sarà possibile avvicinarsi a quell'equilibrio necessario tra piacere e dovere, tra soddisfazione personale e responsabilità verso il prossimo. Senza frustrazioni o malumori, ma in piena coscienza.

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