di Lorenzo Meloni
Restiamo ancora un attimo lontani dal cinema (ma non troppo) per segnalare che sul catalogo Disney+ è da qualche giorno disponibile Hamilton, il musical di Lin-Manuel Miranda sul primo segretario del tesoro nonché padre fondatore americano Alexander Hamilton che dal 2015 non ha mai cessato di mietere successi commerciali e di critica nel mondo anglofono, ma che in Italia, complici sia la poca dimestichezza del paese dell’Opera nei confronti del suo principale erede moderno, sia la particolare difficoltà linguistica di seguire un musical in gran parte composto da arzigogolatissimi e virtuosistici rap, è rimasto finora appannaggio di pochi fan. In verità una delle ragioni principali per cui il fenomeno Hamilton si è fatto sentire poco da noi era sicuramente la sua irreperibilità in versione audiovisiva: le canzoni si potevano ascoltare un po’ ovunque, da Youtube a Spotify, ma per godere appieno della forza drammaturgica del musical, fatta di costumi, intelligenti coreografie e straordinarie interpretazioni, bisognava per forza andare a Broadway o nel West End e spendere una cifra considerevole, o altrimenti accontentarsi di tristissime riprese amatoriali destinate in breve tempo a venir rimosse dagli aventi diritto. Ora finalmente Hamilton è disponibile per gli abbonati del canale Disney in tutta la gloria delle sue due ore e quaranta, e a parere di chi scrive rappresenta uno dei motivi più solidi per aprire un account sul sito (o magari autoinvitarsi a casa di amici iscritti); non solo si tratta di un’esperienza musicale e teatrale travolgente – prodotta nell’arco di sei anni dal genio di Miranda, che ispirandosi a una biografia di Hamilton ha fatto un lavoro pazzesco di riduzione e reinterpretazione, dimostrando un talento di narratore (anzi “librettista”) che pure rischia di passare inosservato accanto all’ispirazione strabiliante delle sue composizioni, quelle hip-hop come quelle più classicamente melodiche; non solo si ha l’occasione di vedere all’opera alcuni dei performer più dotati oggi in attività (il cast è quello originale dei primi anni, con lo stesso Miranda nei panni del protagonista accanto a mostri sacri come Leslie Odom jr., Jonathan Groff, Renèe Elise Goldsberry e Christopher Jackson); vedere/sentire/perdersi in Hamilton significa anche e soprattutto toccare con mano quello che, nel campo dell’arte e della sua relazione con la società, rappresenta forse il principale epifenomeno del cambiamento culturale in atto nei moderni Stati Uniti. Come e più di Da 5 Bloods, il recente film Netflix di Spike Lee, Hamilton risponde all’esigenza da parte delle minoranze razziali (ma in questo caso il discorso è anche molto di genere) di riappropriarsi di una cultura che troppo a lungo le ha emarginate e vessate impedendo loro di chiamarla “propria”; eppure proprio l’appartenenza a quella cultura, il magma americano che da sempre come tutti i contesti più vitali riscrive incessantemente il palinsesto delle proprie rappresentazioni simboliche, permette ora di scendere a patti con la Storia, un compromesso che (come insegnano anche i film di Tarantino) a volte può richiederci di cambiarla; certo queste forme di revisionismo hanno il loro lato allarmante, e lo stesso Hamilton è stato accusato da più parti di aver glissato sugli aspetti controversi delle vite dei Padri Fondatori, con attori afroamericani nei panni di schiavisti come Jefferson o lo stesso Washington. Ma c’è qualcosa di trascinante nell’energia – fra l’altro per nulla acritica - con cui Miranda racconta la prima, l’antica rivoluzione americana; qualcosa che ai nostri occhi gli fa incarnare il volto migliore, più fecondo e propositivo, di quella in atto trecento anni dopo nella stessa società.
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