di Maria C. Fogliaro
«There’ll be great Presidents again… but there’ll never be another Camelot again» («Ci saranno ancora altri grandi Presidenti… ma mai più ci sarà un’altra Camelot»). Era il 6 dicembre 1963, e con un’intervista su «LIFE», firmata dal premio Pulitzer Theodore H. White, Jacqueline Lee Bouvier Kennedy, detta ‘Jackie’, consegnava al mito la figura umana e l’intera presidenza di John Fitzgerald Kennedy. «Don't let it be forgot, − ripeteva Jackie, citando uno dei pezzi preferiti da suo marito, tratto dal finale del musical Camelot − that once there was a spot, for one brief shining moment, that was known as Camelot» («Non dimenticate che un tempo ci fu un luogo che, per un breve splendente momento, fu chiamato Camelot»).
Proprio l’incontro fra Jackie Kennedy e il reporter, e quell’intervista − redatta con maestria da White come un lungo monologo indiretto da consegnare ai posteri −, sono il punto di partenza e il centro intorno al quale ruota Jackie (USA, Cile, 2016, 91’), liberamente ispirato ai fatti che intercorsero fra l’assassinio del trentacinquesimo Presidente degli Stati Uniti, avvenuto il 22 novembre del 1963 a Dallas, e i suoi imponenti funerali di Stato a Washington il 25 novembre. Nel film del regista cileno Pablo Larraín, sceneggiato da Noah Oppenheim, la casa di Hyannis Port (Massachusetts), residenza estiva dei Kennedy, diventa il palcoscenico dal quale Jackie (Natalie Portman) ha deciso di difendere l’immagine pubblica di suo marito Jack (Caspar Phillipson), e di raccontare, tramite Theodore White (Billy Crudup), la sua verità.
Accompagnata dalla sofisticata eleganza della colonna sonora di Mica Levi, che con uno straniante glissando d’archi apre il film, Jackie ricostruisce le vicende di quegli ultimi giorni e trasforma la realtà in leggenda: immediatamente dopo l’attentato, la vediamo a bordo dell’auto correre in ospedale con il capo del marito morto in grembo; presiedere al giuramento di Lyndon Johnson con il tailleur rosa ancora insanguinato, che indosserà fino al suo arrivo a Washington «per far vedere che cosa avevano fatto»; raccontare, distrutta dal dolore, la terribile verità ai figli Caroline e John jr., che avrebbe compiuto tre anni proprio il giorno del funerale; lasciare la Casa Bianca devastata dal dolore e dai ricordi, di quando splendente di regale bellezza aveva aperto quella che per soli tre anni fu la sua dimora non solo a musicisti, artisti, intellettuali, e uomini di Stato, ma anche a tutto il popolo americano con la messa in onda, nel febbraio del 1962, di A Tour of the White House − che la regia rievoca sia attraverso la fedele ricostruzione in bianco e nero del programma della CBS, sia attraverso i retroscena che prendono forma dalla memoria dell’ex First lady −.
Soprattutto, Jackie sa che affinché ciò che è stato (e anche ciò che non è stato) possa vivere in eterno è necessaria un’immagine di per sé espressiva: il funerale di Jack dovrà per questo essere − al pari di quello di Lincoln − uno «spettacolo» in grado di rinsaldare, nel dolore e nella sofferenza, il legame fra il Presidente assassinato e il popolo. Pertanto, superando caparbiamente le resistenze dell’entourage della Casa Bianca, Jackie segue minuziosamente la preparazione del funerale; impone l’organizzazione di un corteo solenne, con una presenza maestosa di unità militari (compresi il «Black Watch» − il battaglione scozzese d’élite dell’esercito britannico −, e un gruppo di ventiquattro cadetti irlandesi), ma che vedrà al centro lei, che – indossando un lungo velo nero e tenendo per mano i suoi due bambini − accompagna il feretro del marito morto; e soprattutto decide la sepoltura di John Fitzgerald Kennedy nel cimitero nazionale di Arlington (Virginia), dove farà in seguito sotterrare − accanto al padre − i loro primi due bambini morti praticamente in fasce, e dove ella stessa verrà sepolta nel 1994.
Jackie vuole offrire il ritratto di una donna consapevole, perfetta nel suo autocontrollo, colta e certa di sé, del proprio ruolo nel mondo, delle proprie responsabilità nei confronti dell’eredità dei Kennedy, e capace di affrontare la solitudine e la disperazione, trasformando il dolore in forza. Superbamente perfezionista nel controllo di ogni dettaglio della propria immagine pubblica, la donna portata in scena da una perfetta Natalie Portman (con gli splendidi costumi creati per lei da Madeline Fontaine) è capace anche di rarissimi momenti di confronto con se stessa, nei quali la maschera pubblica cade (ma mai fino in fondo) come nei colloqui con un prete cattolico (John Hurt, qui in una delle sue ultime interpretazioni), o nei momenti di sfogo con il cognato Bobby (Peter Sarsgaard).
Ma il film di Larraín ci dice molto anche della tendenza alla autonarrazione della cinematografia storica americana, confermata da una lunga serie di film recenti su personaggi politici di rilievo (da Lincoln a Nixon, da Johnson a Martin L. King allo stesso Kennedy). Come se, in una fase in cui l’egemonia traballa, gli USA sentissero il bisogno di riappropriarsi della storia nazionale, senza rancori o divisioni, per trovarvi l’energia necessaria a ridestarsi.
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