di Luigi Ercolani
È presumibilmente legittimo immaginare che uno dei molteplici motivi per i quali Indiana Jones sia tanto amato risiede nel fatto che, come mondo narrativo, non ha concorrenza. È forse l'unico in questo: giusto per fare qualche esempio, il franchise di Star Wars ha come alternativa Star Trek, Stargate o Battlestar Galactica, quello del Signore degli Anelli ha Game of Thrones o Le Cronache di Narnia (e chissà di cosa staremmo parlando se anche Eragon...), i supereroi della Marvel hanno quelli della DC e così via.
Indy invece è unico. Unico e ritenuto e inimitabile, se è vero che, nel tempo, sono stati alquanto sporadici i tentativi di costruire produzioni incentrate su archeologi avventurieri intenti a svelare misteri delle epoche passate. Chi lo ha fatto si è guardato bene dal seguire pedissequamente le tracce dell'eponimo, ed ha cercato di deviare leggermente rispetto agli stilemi proposti dalla coppia Lucas&Spielberg: vengono in mente la saga de La Mummia, che è marcatamente più soprannaturale, oppure Tomb Raider, che per la sua origine videoludica punta invece molto di più sull'azione. Per chi ha buona memoria forse l'unica autentica erede del professor Jones potrebbe essere la... collega universitaria Sydney Fox della serie Relic Hunter, ma, davvero, qui ci finiamo con l'addentrarci nel cult di inizio millennio.
Questa forse eccessivamente elaborata premessa era necessaria per mettere in evidenza come Indy non abbia una vera concorrenza, e che quindi chi ama le storie di mistero a sfondo storico non possa che rivolgersi a lui. La sete di scoperta mescolata a quella di avventura trovano nel personaggio interpretato da Harrison Ford un terminale unico, una fonte univoca a cui lo spettatore in cerca di tali narrazioni può abbeverarsi.
Diviene quindi inesplicabile come, partendo da questo presupposto, la Disney con Indiana Jones e il Quadrante del Destino abbia messo in piedi una struttura fiacca, che si trascina per due ore e venti lasciando la sensazione che i primi a non crederci, a fare tanto per fare, siano stati invece proprio coloro che questo film erano stati chiamati a realizzarlo. Se Il Teschio di Cristallo (Spielberg, 2008) pur non essendo un film perfetto manteneva comunque un suo senso, ed anzi, offriva qualche spunto di riflessione, il quinto capitolo dedicato al più celebre archeologo cinematografico è deludente anzitutto sul piano della coerenza interna.
Dialoghi surreali, momenti di imbarazzante inerzia, successione temporale forzata, personaggi senza scopo, colpi di scena che in realtà non sono tali: Indiana Jones e il Quadrante del Destino non si fa mancare niente, in materia di errori macroscopici. Persino la pur importante tematica del conflitto morale tra amore per la storia e libidine per il denaro, tra beni pubblici e profitti individuali, è resa in maniera dozzinale, secca, e per giunta risolta con un taglio netto, senza una spiegazione anche solo apparentemente logica del cambio di prospettiva avvenuto nel racconto.
Quindi del quinto capitolo dedicato ad Indy non si salva niente? Qualcosa sì. Ad essere ancora una volta unico ed inimitabile, come il protagonista, è l'immersione nei misteri dell'Antichità, la soddisfazione della sete di scoperta che anima chi guarda. Il problema, purtroppo non certo marginale, è il contorno narrativo non all'altezza dei desideri dello spettatore.
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