di Luigi Ercolani
Sui social network è opinione diffusa, ma fortunatamente non maggioritaria, che il cinema in sala abbia i giorni contati. L'arrivo di servizi in streaming come Netflix, Amazon Prime, Apple Tv, Infinity e compagnia, con i loro abbonamenti alla portata ed i ricchi cataloghi ha infatti convinto numerosi utenti che le sale cinematografiche siano ormai diventate superflue: troppa la convenienza nella possibilità di pagare un prezzo più o meno identico a quella del cinema, per godere tra le mura domestiche (quindi senza doversi spostare da casa) di un intrattenimento che dura per un lasso di tempo continuato.
Premesso che la morte della sala nel corso dell'ultracentenaria storia del cinema è già stata decretata diverse volte, ma vale la pena sottolineare come tale prospettiva, pur basandosi su premesse all'apparenza logiche, in realtà sia profondamente errata. Essa si sviluppa infatti da un'ottica occidentale e benestante, e taglia quindi fuori dal ragionamento tutto quel mondo “altro” che in tale punto di vista, semplicemente, non rientra.
Last film show è una sorta di ideale risposta, in questo senso. Se The Fabelmans era stato la trasposizione in lungometraggio del sogno di un bambino che ha i mezzi per farlo di trasformare la fantasmagoria del cinema in un mestiere, il film di Pan Nalin parte dallo stesso desiderio di un coetaneo indiano, ma mostra come esso, nel portare a compimento il proprio obiettivo, incontri decisamente più difficoltà, provenienti da un ambiente in cui le estese fasce di povertà gli offrono ben pochi appigli concreti per inseguire il suo sogno.
Quello con cui lo spettatore occidentale si trova a fare i conti, dunque, è un mondo completamente diverso dal proprio. È infatti l'India più povera e rurale ancora basata su dinamiche più immediate, che limitano i filtri tra individui per rendere il rapporto più diretto, con tutti i pro e i contro che ciò chiaramente comporta.
Un po' Goonies ed un po' Nuovo Cinema Paradiso, Last Film Show suscita spunti di riflessione relativi alla funzione della sala cinematografica tanto come elemento di aggregazione quanto, in questo caso soprattutto, come intrattenimento di massa a basso costo per cittadini che non hanno i mezzi tecnologici per potersene permettere uno personalizzato. Questo rafforza però il senso di comunità, la quale si ritrova nella sala cinematografica (peraltro molto molto più rustica rispetto ai multiplex di stampo statunitense a cui oramai siamo abituati) per godere del medesimo intrattenimento, perpetrando una tradizione che nasce con gli antenati che presumibilmente si riunivano per raccontarsi storie.
Ed è proprio la storia, ci dice il regista, il cuore del film. Accompagnata dai colori vividi tipici del cinema indiano, e da un'immersione su dettagli che portano lo spettatore a contatto con gesti quotidiani come la cucina o le faccende domestiche, la narrazione del lungometraggio mette infatti in risalto anzitutto il racconto in sé, tanto nel suo potere di creatore di immagini e, per estensione, di immaginario collettivo, quanto in quello già menzionato di aggregatore di individui, e quindi di creatore di comunità. Due elementi che sono inscindibili l'uno dall'altro, in quanto la comunità si fonda su un immaginario collettivo, altrimenti detto cultura, che ne è anche imprescindibile collante.
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