di Luigi Ercolani
Volendo sintetizzare al massimo, potremmo dire che Tatami è un film che aveva tutti gli elementi per essere diverso e invece, a causa dei soliti sospetti, risulta omologato a molti altri presenti sui nostri grandi e piccoli schermi. Eppure il potenziale c'era, partendo dalla storia di una judoka iraniana a cui, durante un Mondiale in Georgia, la propria federazione di riferimento vorrebbe imporre il ritiro affinché non incontri l'atleta israeliana. La donna, decisa per una questione di principio a non lasciarsi sopraffare, anche a costo di chiedere un sacrificio alla sua famiglia, ignora gli avvertimenti e le minacce che giungono dalle autorità del proprio paese, scegliendo di diventare una transfuga piuttosto che rinunciare alla propria dignità personale.
Un evento che non sarebbe così inconsueto, visto che sono diversi i casi di sportivi iraniani che sono stati perseguiti dal regime per non aver obbedito a diktat similari: l'ultimo dei casi in questione è, ad esempio, Mostafa Rajai Langroudi, bandito a vita, si è letto di recente, dopo aver posato per le foto di rito con un collega israeliano, dopo un Campionato del Mondo che ha avuto luogo in Polonia. E questo nonostante non sarebbe esplicitamente vietato per gli iraniani gareggiare contro gli israeliani, anche se è parimenti diventata pratica comune, da parte delle autorità di Teheran, incoraggiare i propri rappresentanti a disertare incontri in cui vi siano anche atleti vessilliferi di Tel-Aviv.
Di per sé, se fosse stato declinato unicamente in chiave iraniana, un racconto di questo genere sarebbe stato di sicuro culturalmente interessante, in quanto avrebbe portato una prospettiva di critica autoctona, mostrando il dramma di tali sportivi, che devono rinunciare a qualcosa che amano per questioni ideologiche non dipendenti da loro, ma che ugualmente potrebbero mettere in pericolo l'incolumità dei propri cari. Il problema è che in questo lungometraggio sono intervenuti i finanziamenti americani, distorcendo l'autenticità di quello che, viceversa, avrebbe potuto essere il punto di vista originale.
Lo spettatore si trova così in una condizione surreale, in cui assiste al dramma della protagonista ma, allo stesso tempo, passa il tempo a chiedersi se possa essere davvero verosimile un accanimento tanto serrato sulla rappresentante di uno sport come il judo che, detto senza girarci intorno, non è che sia esattamente di massa. Inseguimenti, famigliari usati come ostaggi e viaggi impossibili per raggiungere la frontiera assumono quindi il contorno di una spettacolarizzazione made in USA, generando scetticismo in merito alla plausibilità degli eventi narrati.
Sensazione che si fa più forte ogni volta che vengono coinvolte le autorità della federazione internazionale di judo (la cui presidente è statunitense, of course), le quali si attivano subito per dare protezione all'atleta ribelle, ottenendo in un tempo record tutte le risorse necessarie perché essa possa trovare rifugio in Occidente e ricongiungersi con il proprio nucleo famigliare. Da potenziale stimolante critica di cittadini iraniani verso il pugno di ferro con cui gli ayatollah guidano il paese, quindi, Tatami finisce per normalizzarsi, risultando l'ennesimo, non necessario e finto peana a quanto gli Stati Uniti si spendano per garantire giustizia e pace, ovunque nel mondo ed in qualsiasi occasione.
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