di Luigi Ercolani
Nomen omen: la protagonista di Dieci minuti si chiama Bianca, ed in effetti ha attraversato la sua stessa vita in modo pallido come una fosse immersa in una sorta di bolla, senza fermarsi mai per recepire o analizzare gli input e i feedback che le venivano da chi la circondava. È nel momento in cui avviene una frattura dei rapporti con il marito che la donna è invece costretta a prendere coscienza di sé, di ciò che è stata e di quale cammino intende intraprendere dopo questo evento tanto traumatico e segnante.
Ciò che progressivamente emerge è un quadro ben più ampio, fatto di un contesto famigliare ingarbugliato e di scelte personali che sono spesso risultate in una difesa ad oltranza di sé, una chiusura verso gli altri che significa, però, anche mancanza di condivisione tanto dei propri talenti quanto dei propri dolori. Da tale atteggiamento autoconservativo come deriva una mancanza di vera crescita personale, la quale può venire solo nel confronto (anche duro a volte, purché sempre corretto) con il prossimo.
Proprio in virtù di questo, da dietro la macchina da presa Maria Sole Tognazzi sembra quasi dire che, con quanti si precludono un rapporto autentico con il contesto che li circonda, occorre usare pazienza, perché verrà per forza il momento in cui ci saranno ostacoli insormontabili che genereranno traumi gravi. Il vero cuore della storia sembra presentarsi proprio qui, in questa dimensione di rete sociale che non abbandona il singolo, ma anzi, lo accompagna silenziosamente nel suo cammino fino a quando, di fronte ad un inciampo, non si fa trovare pronta per aiutarlo a rialzarsi.
La figlia d'arte, tuttavia, ha anche l'accortezza di non disegnare il suo Dieci minuti unicamente nei termini del dramma. Al contrario, la regista propone più volte momenti di scioglimento positivo o addirittura esilaranti, quasi riecheggiando alla lontana la prima strofa della canzone Amandoti dei “CCCP-Fedeli alla linea” (ripresa poi dalla più conosciuta cover di Gianna Nannini), per la precisione quando dice “Qualcosa che assomiglia/A ridere nel pianto”.
A fronte di un approfondimento psicologico a cui interessa scavare nell'animo umano, tuttavia, bisogna dire in tutta onestà che lo sviluppo narrativo del lungometraggio non è pienamente convincente. In alcuni tratti, specie verso la fine, esso eccede infatti nelle spiegazioni, nei dialoghi, cadendo in un surplus di didascalismo.
Il tentativo di chiarire allo spettatore il significato del film rende tutto razionalizzato, inquadrato in una struttura, incasellato in uno schema. Se da una parte tale scelta è comprensibile per la volontà di chiarire il senso di quanto si è visto, magari mantenendo altresì una sorta di aderenza con il materiale sorgente, dall'altra essa finisce purtroppo per soffocare quella che Umberto Eco avrebbe chiamato “cooperazione interpretativa”, ovvero una valorizzazione dell'azione dello spettatore nel rapporto con la storia.
La fisiologica conseguenza è che, in tale contesto, in termini di contributo personale chi guarda può solo limitarsi ad offrire il minimo sindacale, per il resto subendo passivamente quanto gli arriva dalla diegesi. Ciò conferisce alla comunicazione tra autore e fruitore un carattere di univocità che va dal primo al secondo, mentre ciò che esalta le arti performative è, al contrario, la biunivocità, l'interscambio che permette inserire nel cuore della narrazione anche chi fruisce della stessa opera d'arte, rendendolo quasi un astante.
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