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Leila e i suoi fratelli

di Luigi Ercolani

Una decina d'anni fa, tra il 2012 e il 2013, girava sui social una vignetta umoristica alquanto significativa: una donna araba con un burqa e una donna occidentale in bikini si guardavano, e reciprocamente pensavano qualcosa che suonava più o meno come: “Guarda quella, costretta a vivere secondo il desiderio maschile”. Una satira incisiva che, nel suo paradosso, trasmetteva al lettore l'idea che non è affatto legittimo giudicare con superficialità gli usi e costumi altrui, specie quando chi giudica non si rende conto di arrivare alla medesima conclusione, pur se da un'altra strada.

Certo, si può essere d'accordo o non d'accordo, si può preferire la propria cultura o meno, ma esprimere alterigia senza comprendere, senza approfondire è di per sé sbagliato. In tal senso, per lo spettatore occidentale un lungometraggio come Leila e i suoi fratelli diventauna buona occasione di immergersi nell'altro, ridimensionando qualche dozzinale luogo comune sedimentatosi nelle proprie convinzioni, spesso anche a causa di un giornalismo che fa leva su episodi raccontati ad hoc per alimentare il sensazionalismo, oltre che un malcelato senso di superiorità.

Pur essendo chiaramente una narrazione finzionale, infatti, il film di Saeed Roustayi attinge chiaramente alla vita quotidiana dell'Iran, e restituisce l'immagine di una figura femminile molto meno sottomessa, costretta, soggiogata, rispetto a quella narrata dal comparto mediatico occidentale, specie da quando la condizione della donna in Iran ha guadagnato ampio spazio sulla cronaca internazionale a causa delle rivendicazioni portate avanti di recente. Se è vero, infatti, che si tratta di un film con interpreti quasi tutti uomini, appare tuttavia altrettanto evidente che gli astanti maschili e le loro azioni prendono sempre l'abbrivio dalla protagonista.

È lei a sempre condurre il gioco, a prendere parola per dirimere le questioni, a operare scelte decisive anche se mai facili. Pur se numericamente superiore e dunque statisticamente più presente, il cast di personaggi maschili dipende ora in toto, ora in parte, dall'agire di una sola donna, che risulta motore di tutto: di fatto, è come se il regista stesse invitando lo spettatore a non generalizzare, distinguendo le differenze culturali che intercorrono tra i popoli del Medio Oriente, così come intercorrono differenze tra le varie regioni europee, in modo da interiorizzare che la condizione femminile non è uniforme in tutta la realtà musulmana.

L'ottica femminile risulta inoltre doppiamente preziosa anche per come è in grado di inquadrare un contesto sociale e culturale che, questo sì, è marcatamente declinato al maschile. Il culto della tradizione e le necessità pratiche date dalla crisi economica sono dinamiche che fisiologicamente si scontrano: così, tra un padre maggiormente interessato a perseguire l'onore per la famiglia e i figli invece più sensibili alle questioni concrete del vivere si estrinseca un conflitto generazionale che è alla radice ma culturale nelle sue ramificazioni, ovvero una dinamica non dissimile da quanto in fondo avvenuto anche in Europa negli ultimi tempo.

Leila e i suoi fratelli è dunque, in fin dei conti, uno sguardo sull'Altro. Un Altro che è distante da come ce lo hanno raccontato, e più simile a noi di quanto non avremmo potuto immaginare.

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