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Ema

di Lorenzo Meloni


Riesumiamo l'articolo scritto a Venezia 2019 in occasione dell'uscita digitale dell'ultimo film di Pablo Larraìn.


"Quando mi sono sposato ho pensato: con questa donna fonderò una civiltà"


Più di uno spettatore qui a Venezia ha creduto di vedere in Ema una sterzata nel cinema di Pablo Larraín, tentazione comprensibile perché per una volta il regista cileno non mette in scena apertamente nè la Storia nè la biografia, e sostituisce al suo stile consueto, quell'inconfondibile ibrido semi-documentaristico che si ingrigiva mimetizzandosi da materiale di repertorio per toccare ancor più con mano i contesti esplorati, un elegante toccoarthouseche fa proprio in senso ampio il concetto di performance (danza, teatro, street art ecc) e lo pone apparentemente più nelle vicinanze del Suspiria di Guadagnino che non di Post Mortem o Tony Manero. Proprio l'accentuata multimedialità del film, tuttavia, lo inscrive alla perfezione in un percorso che negli anni ha toccato e fatto propri i linguaggi più disparati, dalla TV-spazzatura al referto autoptico, dalla propaganda politica (No) a quella religiosa (El Club), dalla poesia (Neruda) all'allestimento della dimora - e in seguito del funerale, entrambi televisti - di un presidente degli Stati Uniti (Jackie).


Comunicazione della Crisi e Crisi della Comunicazione - in questa contraddizione si agita il cinema di Larraín, unico affresco della ferita insanabile e dei tentativi di suturarla, guardarvi dentro, renderla meno brutta, farvi germogliare carne sana. Cinema politico per diritto di nascita, il suo, quello del figlio di una potente gens conservatrice che sostenne il potere di Pinochet, ritrovatosi a frugare le rovine materiali e morali del suo paese (e non solo) cercando se un senso ci fosse ancora o se almeno fosse possibile inventarne uno, e che dopo la discesa agli Inferi della dittatura nei due film che lo rivelarono a livello internazionale, sempre più ha preferito raccontare l'ambiguità del dopo, quando tutto cambia soprattutto tramite lo sguardo, ed è quindi difficile distinguere la vera rinascita dall'autoillusione: il genietto della pubblicità che diceva No alla dittatura a colpi di buonumore coi suoi spot modello Coca-Cola aveva davvero contribuito a far evolvere la nazione, o si era arreso allo stesso atroce oscurantismo del nemico che combatteva? Il prete che faceva perdere le tracce dei suoi sordidi ex-fratelli scomunicati in El Clùb stava evitando nuove violenze o insabbiando i fatti con metodo fascista? Jackie voleva che la presidenza JFK fosse la Camelot d'America per genuina fede politica o - come le veniva rinfacciato - per brama d'autoaffermazione? Era più facile credere che Neruda fosse un bolso Trimalcione abbrutito, o la Magnifica Preda cantata dal pirandelliano detective di Gael Garcìa Bernal, lui stesso inattendibile creazione del poeta?


Storia di una coppia di artisti agonizzante dopo aver perso la custodia del figlio adottivo, anche Ema racconta un "dopo" traumatico, dove si contano i danni (gli incendi, i feriti, gli sfigurati), si attribuiscono le colpe, ma soprattutto si tenta di ricominciare. “Parlano di noi come se avessimo soffocato un cane con un sacchetto di plastica” viene detto nei primi minuti, in un'autocitazione da El Club che fin dall'inizio guida lo spettatore avvertito a leggere questa vicenda privata come l'ennesimo correlato del male storico in cui si dibatte il paese. Tramite la pratica performativa, coi due genitori in cerca di redenzione entra infatti in osmosi l'intera Santiago, che affolla le prove teatrali di Gastòn (ancora Bernal), coreografo sterile e disilluso, trasformandole in veri e propri gruppi di dibattito sul tema della famiglia interrotta, e le lezioni di ballo di Ema (Mariana Di Girolamo), sensuale anestetico iniettato nelle piazze, moli, scuole ed autobus della capitale. Come sempre da qualche anno a questa parte, Larraín mette in campo dubbi e soluzioni: fa dire a lui che “quando si taglia la coda a una lucertola questa si contorce e soffre, nient'altro”, poi regala il film a lei, celebrandone fin dal titolo la lotta per la rinascita: ma c'è differenza – al netto degli anni trascorsi - fra il suo reggaeton e lo stordimento inseguito ballando dal protagonista di Tony Manero, che volendo evadere la realtà della dittatura finiva a sua volta prevaricatore e assassino? Confrontare la prima e l'ultima scena di Ema, nominalmente un inno al “bruciare per ricostruire”, se si vuole la (mesta) risposta.


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