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Lo chiamavano Jeeg Robot

di Luigi Ercolani 


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“Vola e va, per la Terra vola e va, tra le stelle tu che puoi...”. Saremmo pronti a scommettere che il lettore che abbia una certa età, o quello che sia particolarmente appassionato di intrattenimento giapponese d'antan, abbia letto questo incipit cantandolo, anche solo nella propria mente.

È, naturalmente, la sigla di Jeeg Robot-Uomo d'acciaio, un manga del Sol Levante di genere mecha divenuto poi un ancora più famoso cartone animato, arrivato anche alle nostre latitudini nel 1979. Questa è una prima radiografia, ma chiaramente c'è di più.

Perché forse non si tratta di un caso se chi ha composto quella sigla ha portato ad allungare quel “..tu che puoi...”. Quasi a porre enfasi sull'esortazione ad agire, ad opporsi al male, a chi ha la possibilità di farlo.

Una sorta “da grandi poteri derivano grandi responsabilità” di marvelliana memoria. E tuttavia si tratta di un appello che è allo stesso tempo accentuato nell'aspetto di coscienza individuale ai potenziali eroi ad agire immediatamente di fronte ad una determinata questione, a non tentennare anche se la sfida pare impossibile.

Proprio questo risulta in sintesi il filo conduttore di Lo chiamavano Jeeg Robot. Un film atipico per il panorama cinematografico italiano, e che forse anche per questo motivo che, proprio dieci anni fa, vide le anteprime proiettate al “Lucca Comics&Games”, la rassegna fumettistica più importante d'Italia e una delle più rinomate in Europa.

Un lungometraggio che si inserisce in quel genere che viene definito come “supereroi”. Una categoria in realtà abbastanza impropria, che raccoglie dozzinalmente tutta una serie di storie e personaggi che in realtà raccontano il reale attraverso il fantastico.

Gabriele Mainetti, in questo senso, ha tuttavia portato avanti la costruzione di una storia che non si limitasse a scimmiottare le grandi produzioni hollywodiane ad alto budget, ma che potesse risultare tipicamente italiana. Risultato raggiunto in pieno, a dimostrazione che la cinematografia tricolore, quando non si impigrisce a ruminare sempre gli stessi argomenti e sempre nello stesso modo, sa ancora essere originale e accattivante.

Il regista, infatti, ha sapientemente mescolato il thriller e il cinema sociale nostrano con gli stilemi tipici di questo genere di blockbuster. Ecco quindi che, a differenza degli eroi ed antieroi scintillanti ed impavidi che Hollywood ci ha sempre proposto, con Lo chiamavano Jeeg Robot ci troviamo di fronte ad un protagonista completamente differente.

Si tratta infatti di un guitto di periferia che vive di espedienti, in condizioni disagiate, e i cui contatti umani sono limitati alla propria microsfera di criminalità, preferendo per il resto un autoimposto isolamento. Un individuo che non ha proprio alcun crisma, nemmeno in prospettiva, per poter fare l'eroe.

È verosimilmente per questo che, una volta acquisite per fatalità alcune capacità sovrumane, inizialmente le utilizza per proseguire “meglio”, ovvero in maniera più efficace, nella vita di reati che ha sempre condtto. Non si sente un eroe, e come accennato tende a rifiutare le chiamate che riceve, sottraendosi a qualsiasi responsabilità esse possano comportare.

È solo quando gli eventi lo forzano a doversi prendere cura di chi è più debole che il protagonista si rende conto che non può nascondere i suoi doni sottoterra, ma che questi devono portare frutto venendo messi al servizio del bene collettivo. Ed in fondo cosa sono i supereroi, se non versioni in carne (o in carta) della Parabola dei Talenti?

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