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La città di pianura

di Luigi Ercolani



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Un road movie, ma in salsa padano-veneta. Un buddy movie, con punte drammatiche e filosofiche. Un film dal sapore country, che si snoda sulla piccola-media impresa italiana.

Quando si analizza un lungometraggio non di rado, anzi, proprio abbastanza spesso, si fa ricorso ad una precomprensione composta di generi già conosciuti. Si tratta di un escamotage semplice, attraverso il quale si ritiene che lo spettatore potenziale possa ritrovarsi, e convincersi a vedere l'opera in questione.

Sicuramente ciò era vero quando questo sistema è stato codificato, nel periodo del cinema classico hollywoodiano, fatto di topoi codificati. Ma nell'epoca del mélange, dell'ibridazione in cui le categorie si mischiano tra loro allo scopo di affermare perentoriamente “Questo non è il solito film!”, ha ancora senso rifarsi a questo sistema?

La risposta spontanea, chiaramente, è che prendere tali riferimenti aiuta più chi scrive recensioni che chi riceve l'invito a fruire del film. Anzi, è più probabile che si corra il rischio di rinchiudere la pellicola dentro categorie preconfezionate che allontanano, e non avvicinano, i destinatari della recensione stessa.

Ecco, in questo senso forse l'unica divisione che vale la pena effettuare, giusto per dare un orientamento di massima, è quella tra “commedia” e “film drammatico”. Frazionamento forse basico, ma che lascia modo allo spettatore di riempire la narrazione con quella che Umberto Eco avrebbe chiamato “cooperazione interpretativa”.

Dunque, seguendo il nostro stesso esempio, e per non predicare in un modo e razzolare in un altro, possiamo dire che La città di pianura è un film drammatico. Con qualche sprazzo qua e là di commedia, giusto per alleggerire i toni, ma comunque più vicino al genere drammatico.

Ed il dramma principale è che racconta di un mondo che non c'è più. Un mondo portato via da diversi fattori: crisi del 2008, età avanzata e burocrazia soffocante tra gli altri.

La ricerca del tesoro dell'amico fuggito in Argentina a causa dei suoi reati, in quest'ottica, assume tutto un altro significato. Non è più ricerca del tesoro in sé, ma ricerca del tempo perduto, dei giorni felici in cui le forze non erano ancora calate, il vino faceva buon sangue (mentre ora invece allevia le ferite) e il ristorante di fiducia non aveva ancora chiuso i battenti.

Se Carlo Collodi fosse stato ancora tra noi, molto probabilmente avrebbe tratteggiato il Gatto e la Volpe in una maniera molto simile alla caratterizzazione di Doriano e Carlo. Con Giulio, lo studente di Architettura timido e refrattario ai bagordi, nelle vesti di novello Pinocchio.

Un Pinocchio non più ingannato da una coppia di vecchi filibustieri, ma, al contrario, sapientemente guidato da due squattrinati, che squarciano il velo di idealismo e ottimismo della volontà che si cela dietro la vita universitaria. E gettando uno sguardo dietro un ambiente tanto protetto, Giulio/Pinocchio impara che l'esistenza è altro: è asperità, lacrime e stridore di denti, pragmatismo che non sfocia (o non dovrebbe sfociare) mai nel cinismo fine a sé stesso.

Ma è anche, e soprattutto, affrontare tutte queste difficoltà con il sorriso, consapevoli che, in un modo o in un altro, dalla vita non ne usciremo vivi. Ecco, forse “il segreto del mondo” che i Doriano e Carlo hanno intuito da ubriachi e dimenticato da sobri, sta proprio nel raggiungere questo grado di consapevolezza. Sapendo dare, di conseguenza, il giusto peso a ogni cosa.


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