di Luigi Ercolani
Ha detto il cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente emerito del Pontificio consiglio della cultura “Pregare è un'arte, un esercizio di bellezza, di canto, di liberazione interiore. È ascesi e ascesa, è impegno rigoroso, ma anche volo lieve e libero dell'anima verso Dio”. Dunque rivolgersi al Divino sì richiede una predisposizione d'animo adeguata, ma anche, e soprattutto, ha come conditio sine qua non una sensazione di vero slancio spontaneo e gioioso verso il Cielo.
Ciò che maggiormente colpisce, nel film Amen di Andrea Baroni, è la totale assenza di tale sentimento. Anzi, il regista è al contrario assolutamente chirurgico nel costruire un contesto che ispiri nello spettatore esattamente le sensazioni opposte, causandogli disagio.
Quello in cui è immerso chi guarda risulta infatti un ambiente caratterizzato da un'impostazione religiosa pedante ed artificiosa, ruminante e centripeta, asfissiante e didascalica. Una visione della fede che, malgrado il punto di partenza sia in teoria la Bibbia nel suo complesso, mantiene in realtà una certa aderenza a dinamiche presenti nel Vecchio Testamento, non di rado tradotte alla lettera nella vita di tutti i giorni.
Il piccolo mondo rurale dalla cui cornice il lungometraggio non si allontana mai assume quindi le sembianze di un contesto molto più simile a quello autoreferenziale tipico delle sette religiose. In questo senso, a dominare la scena sono soprattutto i concetti di “peccato”, “pentimento” e “punizione”, che però perdono qualsiasi accezione di responsabilizzazione positiva che hanno per il cattolicesimo e diventano meri strumenti oppressivi, di dominio psicologico.
Non è un caso che, similmente a quando avviene in tali ambienti, non solo si rifiuti in blocco qualsiasi espressione della Chiesa considerandola conflittuale, ma non ci sia alcun ministro formato appositamente che operi come guida spirituale. Ad imporre il proprio ruolo di mediazione tra il Divino e l'essere umano è invece una figura matriarcale, severa e intransigente, il cui animo si può definire ben disposto solo nel momento in cui si rispettano i suoi dettami, peraltro lontani da un qualsiasi autentico spirito evangelico.
Un'anomalia, sicuramente, perché lo spettatore nel tempo è stato abituato dalla cinematografia a veder adottare tale approccio da figure largamente maschili. Il padre delle tre ragazze, e figlio della matriarca in questione, è invece una figura che, dietro un animo rude, rivela invece inaspettatamente una predisposizione più disponibile a mediare, e a coprire le figlie ove necessario.
Coltivare un clima esplicitamente ostile come questo, tuttavia, ha inevitabilmente i suoi rovesci. È quindi a conti fatti incontrovertibile che si rischi o di creare degli automi che ripetano tradizioni senza capirne il senso o, peggio ancora, di far nascere in qualcuno un risentimento generato dalla vessazione che inevitabilmente porti chi lo subisce ad allontanarsi prima dal vero nocciolo della fede, e poi dalla fede stessa.
Una riflessione di questo tipo è sicuramente preziosa, ma, ad essere onesti, andava sviluppata in maniera forse più autonoma. Nella costruzione delle sorelle protagoniste di Amen, infatti, è marcata l'influenza di un classico come Piccole donne: se da un lato tale ascendente può essere considerato un omaggio, dall'altra però traspare quasi una volontà di suonare uno spartito dal sicuro rendimento. Un peccato, perché con una scelta meno conservativa verosimilmente sarebbero emersi ulteriori elementi degni di nota.
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