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Luca



di Lorenzo Meloni


Peccato che Disney non abbia deciso per una distribuzione cinematografica di Luca, l’ultimo film Pixar ambientato in un’immaginaria quanto vivida riviera ligure e diretto dall’italianissimo Enrico Casarosa. Rispetto ai pur buoni risultati estetici di Soul e Onward quest’ultima fatica del leggendario studio di animazione digitale si segnala infatti innanzitutto per la straordinaria immersività delle sue ambientazioni e delle sue atmosfere. Un piacere per gli occhi che il grande schermo avrebbe esaltato al meglio.


Rispetto alle paure di una rappresentazione stereotipica del Belpaese Luca gioca in contropiede con la più commovente delle serenate. Ci sono gli status symbol (la Vespa), i tòpoi cinematografici (la bicicletta immancabile nell’immaginario americano sull’Italia da De Sica in poi); ma a unire questi obbligatori puntini c’è un tessuto connettivo autentico, un’avventura infantile (un po’ come l’inizio di Up) dove la Pixar si lascia dietro le elucubrazioni un po’ fredde del film precedente per trovare una leggerezza di tono “disneyana” ma anche peregrinante in senso europeo, più esplorativa che agli ordini della trama.


Nel frattempo il team guidato da Casarosa non perde occasione per un altro omaggio, quello allo Studio Ghibli che per anni ha conteso alla Pixar lo scettro di maestri di un’animazione diversa, per adulti-bambini, rispettosa del cuore del pubblico quanto della sua intelligenza. È noto l’amore di Hayao Miyazaki per l’Europa in genere e l’Italia in particolare, e quest’ambientazione è il pretesto perfetto per alcune amorevoli citazioni come il sogno in volo a bordo della Vespa, gioiello della meccanica italiana come gli aerei fantasticati dal protagonista di Si alza il vento, o il nome dell’immaginaria cittadina stile Cinque Terre: Portorosso come Porco Rosso, altro classico su italia e aeronautica.


Sotto la sua superficie di solare fiaba estiva Luca traccia poi con l’indirettezza del miglior cinema hollywoodiano un apologo sul diverso, l’escluso, l’outcast, l’handicap, l’immigrato, il queer, che va bene per ogni battaglia di accettazione. Ha ragione sia chi l’ha visto come la risposta Pixar a Call Me By Your Name sia chi ci ha trovato le stimmate dell’incontro anfibio (nella letterale accezione di “doppia vita”, quindi scissione identitaria ma anche incontro) di The Shape of Water. Non è un capolavoro? Forse, ma poco importa. È un meraviglioso racconto con cui crescere. E forse è anche meglio.



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