di Lorenzo Meloni
Nel suo provvidenziale podcast “Il posto delle fragole” Roy Menarini difende Soul, l’ultima creatura Disney-Pixar, da varie tipologie di critiche rivoltegli dai commentatori. Prendiamo spunto dall’ultima di queste controffensive, che rimanda al mittente gli argomenti di chi accusa il film di non innovare particolarmente la formula dei precedenti successi Inside Out (2015) e Coco (2017) a base di riflessioni adulte sulla morte e tecnologiche sale-controllo che supervisionano la nostra vita emozionale o spirituale, per riflettere su questo tema: Pixar è ancora la straordinaria inventrice di forme che a cavallo tra fine anni ‘90 e il primo decennio degli ‘00 contribuì più di ogni altro studio (eccetto la Ghibli dei maestri Miyazaki e Takahata) a legittimare in occidente il cinema d’animazione come la forma d’arte che era sempre stato, con una serie di film “per bambini” dalla portata tanto universale da mettere d’accordo critica e pubblico – infantile e adulto – di due o tre generazioni?
Un po’ di ruggine è fisiologica. Il pubblico si abitua a qualunque formula, anche le più brillanti, e se da una parte nel corso degli anni la qualità tecnica dei film Pixar è stata raggiunta dagli altri grandi studi americani d’animazione digitale, brutti colpi sono arrivati anche con l’abbandono di svariati membri storici dello studio, primo fra tutti quel John Lasseter – “vittima” dello scandalo #metoo – che ne era stato cofondatore e principale motore creativo. Guardando sempre a Coco e Inside Out, le opere maiuscole del periodo più recente, appare poi evidente come la sempre minor unicità della Pixar in termini sia tecnologici che di ambizioni narrative abbia avuto per conseguenza due strategie opposte: da una parte una certa “disneyzzazione” (Coco), con l’ecumenica casa madre e la figlia sregolata a scambiarsi quasi di posto (le punte estreme di Zootropolis contro la dolcezza familiarista della fiaba macabra Pixar); dall’altra l’accettata sfida dell’essere anche studio “per adulti”, che va incontro alle frange più elitarie del proprio pubblico con film a dir poco cerebrali ed astratti (Inside Out), capaci magari di recuperare i piccolissimi grazie a colorati tour-de-force digitali, ma che rischiano di lasciare perplessi i preadolescenti.
Forse il problema è negli occhi di chi guarda - un po’ più scusato se pensiamo alla sfilza di capolavori del periodo 1995-2009 con cui però almeno i due film citati reggono più che dignitosamente il confronto. Forse, almeno nel caso di Soul, è qualcosa di più concreto. Se ci schieriamo (in parte) con chi lo accusa di ripetere suggestioni del passato non è per le tematiche: dalla Pixar vogliamo questo tipo di coerenza autoriale, vogliamo che torni a esplorare da prospettive sempre nuove le sue inconfondibili ossessioni. Il problema, forse soggettivo, è che ci sembra manchi quella capacità vorticosa di risucchiare lo spettatore in un micro-universo vivido, plausibile e indimenticabile. Una caratteristica tipica dei migliori film Pixar è che lo scenario non veniva mai ridotto a pretesto di riflessione, ma bensì trattato con la massima serietà ed impegno. Ogni volta che Pixar ha “scelto” un genere, un’ambientazione, un setting, lo ha elevato alla massima potenza: Alla ricerca di Nemo e Up non sono solo “road movie”, sono fra i più grandi road movie di tutti i tempi; Ratatouille non è “un film sulla cucina”, è il più sublime inno all’arte culinaria mai composto nella storia della settima arte; Gli Incredibili se la gioca alla pari con Il Cavaliere Oscuro o Spider-Man 2, alcuni dei migliori film di supereroi;A Bugs Life non fa rimpiangere un modello del calibro di I sette samurai,e così via.
Se la Pixar di quegli anni (ma vale ancora per l’introspezione di Inside Out e il Dìa de muertos di Coco) avesse approcciato il jazz, con fideismo forse ingenuo mi sento di affermare che avremmo avuto un altro Bird, un altro Cotton Club o Mo’ Better Blues. Il problema di Soul è che non nasceva come film sul jazz e su New York: leggendo la storia produttiva del film apprendiamo che la storia dell’anima dipartita di un artista che visita l’aldilà doveva avere per protagonista un animatore, non un musicista. In termini visivi e d’atmosfera, quella che avrebbe potuta essere una meravigliosa compatibilità fra i progetti digitali del protagonista e la rappresentazione ultra-stilizzata e tecnologica dell’aldilà diventa invece un pericoloso scollamento nel momento in cui a quest’ultima vengono contrapposti il sudore e le luci soffuse delle cantine jazz, l’arancio dell’autunno newyorkese e il calore dei barber-shop dei quartieri afroamericani. Abbiamo così un film scisso in due, con molti spettatori che non a caso sostengono di aver amato uno dei due setting molto di più (e a discapito) dell’altro.
La difficoltà di amalgamare i due ingredienti impedisce lo scatenarsi di quell’alchimia inconfondibile: come in un miscuglio non omogeneo essi restano a galleggiare per conto proprio, non trovando mai fino in fondo l’armonia di un respiro comune. È per questo che tanti stanno accusando Soul di ripetere le suggestioni visive di Inside Out e quelle tematiche di Coco, perché questa disarmonia di fondo (puramente cinematografica, esperienziale) le lascia allo scoperto, isolate e quindi contemporaneamente meno efficaci e più blandamente individuabili. Soul resta un film di eccellente fattura, divertente e ritmato. Ma per quanto tratti tematiche importanti, lascia comunque con una netta impressione di convenzionalità. Manca il brivido di tuffare la testa sott’acqua o nello scatolone dei giocattoli. Manca, imperdonabilmente, il jazz.
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