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La vita da grandi

di Luigi Ercolani


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È facile dire: “Bisogna diventare adulti”. Perché diventare adulti è un processo che richiede tempo, cadute, risalite, notti di lacrime e stridore di denti in attesa di gioie che siano durevoli.

Diventare adulti vuol dire saper cogliere il momento giusto, nella dilatazione che ci è concessa. Ed è una dinamica che dura a lungo, molto a lungo. Per qualcuno anche tutta la vita.

Non si lasci, il lettore, ingannare dalla sinossi di La vita da grandi. Perché il film d'esordio alla regia di Greta Scarano non parla del successo effimero di un quarantenne, Omar, che vive una condizione di autismo. Parla di tutti gli altri, che devono venire a patti con quelle fragilità personali che vengono messe in risalto dalle peculiarità del protagonista.

Il primo esempio sicuramente è Irene, la sorella. Che non ha tempo: non ha tempo perché deve lavorare, non ha tempo perché deve pensare al mutuo, non ha tempo perché ha una vita da costruirsi.

Ma che tipo di vita vuoi costruire, se trascuri gli affetti? Se non metti il tuo tempo a disposizione di quelli che vivono nel bisogno? Una vita autoreferenziale sicuramente. Ma una vita in cui c'è spazio solo per noi stessi diventa, progressivamente, una vita vuota, proprio perché alla fine occupata solo da noi.

È di questo che deve rendersi conto Irene, che man mano che la narrazione procede, comprende che il tempo passato con il fratello è tempo di qualità, perché sottratto al “fare” per essere dedicato al “sentire”. E, nel sentimento, al vivere pieno, che è creazione di legami con le persone e non con le cose, intese qui anche in termini di “attività”.

È in tale tempo di qualità che la giovane arriva per così dire a sintonizzarsi sulle medesime onde del fratello. È così che scopre una maniera di vivere nuova. A volte più intensa, ma mai ossessionata. A volte più lieve, ma mai superficiale.

Se è vero che all'inizio Irene afferma che si può vivere anche senza figli (refrain in generale spesso presente nell'attuale produzione cinematografica nostrana) progressivamente finisce però per comportarsi come madre de facto di suo fratello. Arrivando persino a lavorare per correggere un'impostazione sbagliata della madre stessa.

Qui giungiamo ad un filone celato, ma non per questo meno rilevante, di La vita da grandi: il ruolo del genitore. Una riflessione stimolante, e particolarmente attuale vista la crisi che tale ruolo sta attraversando nel mondo contemporaneo.

Appare paradossale, ma pur essendo Omar un quarantenne, i suoi genitori, in particolare la madre, compiono con lui il medesimo errore che attualmente fanno molti con i ragazzi della cosiddetta Generazione Z. Ovvero costruire attorno a lui una bolla per evitare che si ferisca, e che le eventuali ferite riportate lascino poi il segno nel suo animo.

Ma, come ricorda Irene, ad un certo punto le sconfitte arrivano per tutti. E se si è vissuto dentro una bolla per tanto tempo, non si è preparati ad affrontarle, e ciò comporta inevitabilmente che esse diventano più salaci, più dolorose, più nette.

La vita da grandi si rivela dunque, alla fine dei conti, un film non tanto sull'autismo, ma sul guidare altre persone attraverso il percorso della vita. Una scoperta guidata altruista, che allo stesso tempo porta ulteriore sviluppo anche a chi conduce. Un processo solidale, necessario in tempi di individualismo sfrenato come quelli che stiamo attraversando.


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