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A PRIVATE WAR


di Lorenzo Meloni

Marie Colvin nacque ad Oyster Bay, stato di New York, nel 1956 ed è morta in Siria durante l'offensiva di Homs del 2012. Dal 1986 era la principale corrispondente del quotidiano britannico The Sunday Times in medio oriente e aveva visitato tutti i principali teatri di guerra, mettendo spesso a repentaglio la propria incolumità in inchieste non autorizzate al di fuori dei limiti minimi di sicurezza. Con quel titolo non possiamo aspettarci da A Private War un'analisi dettagliata di realtà distanti come le guerre scoppiate in un lasso di tempo tanto breve in Sri Lanka, Iraq, Afghanistan, Libia e Siria. Ci aspettiamo un ritratto della donna che le ha raccontate, e il film di Matthew Heineman non delude: una volta finito sappiamo assai più su di lei - per come la ricorda l'articolo del 2012 di Vanity Fair Marie Colvin's Private War a cui si ispira - che non su uno qualsiasi di quei conflitti lontani nello spazio e progressivamente anche nel tempo che ne scandiscono la biografia, in un rapido allarmante countdown da 9, a 6, a 3, a un anno "prima di Homs".

Ma ciò che i realizzatori, assistiti da una superba Rosamund Pike fanno è in gran parte agli antipodi rispetto alle convenzioni di questo genere di biopic; si sforzano cioè di riportare l'eroismo entro confini di normalità e vicinanza che lo conservino – se non proprio emulabile – fertile, più che farne un feticcio inerte. Marie non è la Giovanna d'Arco dreyeriana, gli occhi rapiti da una verità tanto più grande della nostra da evadere i bordi dell'inquadratura. Addirittura gliene manca uno, portatole via dai miliziani in Sri Lanka, tanto che l'amico e fotografo Paul Conroy (Jamie Dornan) scherza sulla sua incapacità da guercia di vedere il quadro generale delle cose. "I ain't no fucking pirate!" ride lei della benda nera al suo occhio sinistro, ma è più facile vedere come corsaro (burbero e terreno) che come santo o martire chi rischia la pelle spacciando ai controlli di frontiera degli uomini di Saddam la tessera della palestra per attestato di appartenenza a un'organizzazione umanitaria.

Quella ferita prova anche che può sanguinare e morire, come le vittime di guerra che intervista ogni giorno o i soldati di cui condivide tutti i sintomi da stress post-traumatico. Ma questa partecipazione concreta, sia perchè pragmatica che perché fisica e pulsionale ai limiti di una tossicodipendenza, alla realtà che insegue per documentarla, da sola non le impedirebbe di sfumare nel mito per altra strada, miraggio nella polvere del deserto siriano come la Dian Fossey ispida, ingrigita e predatrice di Sigourney Weaver nei boschi del Virunga in Gorilla nella nebbia. C'è però la dedizione di Heineman alle idee espresse nell'intervista che ascoltiamo all'inizio e alla fine del film, da cui emerge come il punto fosse colmare la distanza fra i suoi lettori e le sue guerre, far sì che diventassero nei limiti del possibile anche loro. "Private" non per "exclusive" ma per familiare, addirittura domestico. Nella storia di Marie non c'è soluzione di continuità fra la missione e una vita borghese fatta di amici, amanti, comodità e problemi "normali", mai al riparo dagli echi del fronte come il fronte non è impermeabile ad essa (le creme per il viso, il reggiseno LaPerla, l'attenzione alla linea). Fino al montaggio alternato che fonde macabramente una notte di sesso, una di lavoro a un articolo sulla riesumazione di cadaveri da una fossa comune irachena (la Pike è anche qui seminuda, inquadrata dal basso e con le gambe divaricate) e il suo incubo ricorrente della morte di una bambina.

Nella testa dello spettatore generico, azzardiamo, non c'è gran differenza fra la guerra in Afghanistan, quella in Iraq e quella in Siria - tutte ammantate dello stesso color kaki, tutte parlate senza sottotitoli in lingue impenetrabili che finiscono per confondersi. Negli incubi della Colvin qui portati sullo schermo è lo stesso, impossibile dire cosa sia successo dove. Ma lo specifico dei meccanismi storici le interessa meno degli uomini, del dolore dei singoli che è identico in tutte le guerre: "mi permetta di raccontare la sua storia" è il mantra che la accompagna. Affrontando a viso aperto il rischio dell'indistinzione e della retorica Marie non punta a informare ma a coinvolgere, non fornisce statistiche ma documenti umani, è la mano che esplora alla cieca e si ferisce per noi, è una di noi ma mutilata e sconvolta come loro. Solo altri tre anni ed entrerebbe in scena l'Isis, il gelo di sperare che un villaggio in più venga raso al suolo da quelle parti purchè le nostre città restino sicure. La frase - "ci bombardano ogni giorno e ancora si dice solo che siamo terroristi" - pronunciata anni prima da un leader della resistenza siriana ad Assad, avrebbe gioco ancor più facile nel denunciare lo iato spaventoso che nessuna "visione d'insieme" può colmare, che rende indispensabile chi ha un occhio solo.



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