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A Rainy Day In New York


di Lorenzo Meloni


È tornato. Non che si fosse fermato - per quanto ne sappiamo il prossimo film è già girato, ed è pronta addirittura la sceneggiatura del successivo - lo avevano fermato i tempi che corrono. #metoo non ha perdonato (quasi) nessuno, nè giustamente i colpevoli come il suo collega Polanski, nè, perchè qualche fatalità è inevitabile in fenomeni di questa portata, i ripetutamente assolti in tribunale, per una storia che pensavamo archiviata da decenni ma evidentemente non ha perso il potere di far parlare. È solo e soltanto per questo che un dettaglio piuttosto trascurabile di A Rainy Day In New York (2018 ---> 2019), il film di Woody Allen "congelato" da Amazon fra polemiche di ogni tipo e che ora ha finalmente trovato almeno una distribuzione europea, sta monopolizzando la discussione al riguardo.

Nel film, la giornalista in erba (Elle Fanning) fidanzata del protagonista (Timothèe Chalamet, pienamente "allenizzato") intervista per conto del periodico del suo ateneo un celebre regista (Liev Schrieber), autore di film con titoli dal chiaro sapore bergmaniano. E il regista si chiama Roland Pollard; anzi ROlANd POLlArd, che suona un po' come "Roman Polanski". E quindi ecco che un film scritto e per la maggior parte anche girato prima dello scandalo che un paio di anni fa ha scosso Hollywood fino alle fondamenta diventa saggio sulla vicenda vittimistica dell'artista divorato dal Sistema.

Per noi, anche se il riferimento a Polanski dovesse essere stato inserito all'ultimo momento a scopo di critica (le riprese del film sono terminate a ottobre 2017, lo stesso mese che ha visto nascere il movimento Time's Up), la sua presenza avrebbe comunque soprattutto un altro valore, quello che lo inscrive - in quanto doppio legame con New York e Mia Farrow - nel piccolo mosaico di ricordi alleniani, come sempre insieme filmici e autobiografici, che sono il cuore pensoso e lievemente malinconico di A Rainy Day In New York. Roy Menarini ha paragonato l'ultimo Allen a The Irishman di Martin Scorsese, sostenendo che un identico senso testamentario accomuni i due film (per tanti altri versi imparagonabili) di questi due giganti della Nuova Hollywood, fra gli ultimi superstiti suoi e di un'idea novecentesca di cinema ormai in procinto di tramontare definitivamente. Lo testimonierebbe lo scarto, volutamente enfatizzato da entrambi, fra il concept abituale - entrambi rientrano in formule autoriali iperconsolidate - e la sua nuova e inadeguata veste digitale.

Woody però (continua Menarini) in tutto questo sembra spassarsela un mondo e addirittura rinfrancarsi, come se la sola possibilità che il suo cinema così agèe continui a vivere, tramite lui e soprattutto la sua più moderna progenie (vedi il film Netflix di Noah Baumbach), costituisse per lui una straordinaria iniezione di fiducia, tanto più sfacciata e compiaciuta quanto più è chiaro che il suo film non ha nemmeno bisogno di funzionare - e A Rainy Day In New York a tratti funziona davvero così così - per "pesare", anche solo in quanto ultimo figlio di una matrice nobile, storicizzata e per questo imperitura.

La venatura teorica sembrerebbe confermata anche dalla sceneggiatura, che da una parte riprende il discorso sull'illusione consolatrice del cinema da dove lo aveva lasciato La ruota delle meraviglie (2017), dall'altra - con un doppio finale rivelatorio e "soprannaturale" (alla maniera di Provaci ancora Sam o La rosa purpurea del Cairo), lo incrocia con la sempiterna meditazione sulla propria finitudine e mortalità, e a sorpresa, dopo le conclusioni veramente apocalittiche dell'ultimo film, sembra trarre dalla vicenda del suo protagonista-avatar un filo di speranza. In un nuovo, più senile e più teorico Amarcord, Chalamet/Allen vagabonda per la New York che è stata la sua vita, una vita che è (diventata) cinema. Riscopre i suoi locali, il suo clima, torna nel sottopassaggio di Central Park dove aveva lasciato Gena Rowlands e Gene Hackman nel bacio appassionato che chiude quel capolavoro di Un'altra donna (1988). È un po' diversa, meno corporea e più digitale. Ma è ancora lì, è lì per sempre con noi appassionati. La morte, forse, è domata.

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