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Assassinio sul Nilo


di Lorenzo Meloni

In barba a quelli che lo definivano “ingessato”, “oleografico” o semplicemente “vecchio”, Assassinio sull’Orient Express (2017) era stato uno dei successi della stagione cinematografica di sei anni fa. Merito di un’idea editoriale precisa e compatta da parte del regista-interprete Kenneth Branagh e della produzione. Branagh, ex-enfant prodige del teatro shakespeariano negli anni Ottanta e Novanta, aveva messo a frutto il bagno di umiltà della sua breve parentesi nelle scuderie Marvel con Thor (2011). Il suo Poirot era adeguatamente pop, spettacolare, prono allo star system. E soprattutto, come da sempre sono i capolavori della signora Christie, serializzabile.

Assassinio sul Nilo è la messa in pratica di quest’ultimo concetto. Da una parte sequel in piena regola che replica i punti di forza dell’originale, superspettacolo retrò con sfondo esotico abitato da un cast stellare in cui si alternano volti storici e nuove promesse (l’eccezionale Emma Mackey diSex Education). Dall’altra film “di franchise” moderno, che non si accontenta più di esibire il carisma un po’ psicopatico del protagonista ma vuole approfondirlo, mischiando l’indagine sul caso di turno con lo scavo nel suo passato tormentato. Questa dimensione psicologica rappresenta il principale progresso rispetto al primo capitolo, rendendo Poirot un personaggio più tridimensionale e sottolineando i temi romantici e mortiferi dell’indagine.

Il film conferma le regole del gioco intrapreso da Branagh, la cui sfida è anzitutto capire se il giallo classico abbia ancora presa popolare. Si può tenere incollato il pubblico con due ore di lambiccate deduzioni logiche? Gli incassi di Orient Express facevano pensare di sì, come quelli del più recente Cena con delitto – Knives Out (2019). Alla strada postmoderna (per quanto ugualmente imbevuta di nostalgia british) del film di Ryan Johnson Branagh oppone il richiamo al grande cinema turistico degli anni Cinquanta e Sessanta, che arginava l’emorragia di spettatori causata dalla concorrenza della tv con le armi dello star power e di location da sogno ai quattro angoli del globo. Come all’epoca, la sensazione di trovarsi in crociera sul Nilo vale quanto e più del misterioso omicidio da risolvere.

Aggiungiamo l’approfondimento in chiave sentimentale del nostro “supereroe”, che non vola fra i grattacieli ma con la mente, e appare chiaro quanto il Poirot Cinematic Universe abbia fatto tesoro della lezione Marvel-Disney. In fondo non è solo il giallo ad essere in pericolo ma lo statuto del cinema come luogo di grandi narrazioni, ancor più che negli anni Cinquanta messo a repentaglio dalla concorrenza di un’intera galassia mediale. La soluzione è inserirsi nelle nuove tendenze spettatoriali, vogliose di narrazioni seriali complesse e personaggi a tutto tondo cui affezionarsi, evidenziando al contempo quelle armi espressive che solo il grande schermo può sfoderare con tutta la potenza della sua macchina di spettacolo.

Forse Assassinio sul Nilo non convincerà i detrattori del suo predecessore, che vi ritroveranno lo stesso gusto classico, a malepena più kitsch di quello sfoderato da Sidney Lumet per la sua versione di Orient Express (1974) che per scala e ambizione nel portare in scena Poirot appare come il principale modello della bilogia. In effetti i film di Branagh non rivoluzionano (quasi) nulla, ma rappresentano un tentativo oculato e intelligente di mischiare serialità, introspezione e valori produttivi all’interno di una logica di brand pienamente contemporanea. E per questo meritano rispetto.






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