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Caracas

di Luigi Ercolani

A livello storico, non è un mistero che paesi come Stati Uniti, Brasile, Argentina, Uruguay, Venezuela abbiano rappresentato per molti italiani una meta di emigrazione. Una prima fase del fenomeno partì nel 1861, subito dopo la proclamazione del Regno d'Italia, e andò a scemare all'alba del Ventennio, ma riprese al termine della Seconda Guerra Mondiale, chiudendosi circa negli anni Settanta.

Come una sorta di percorso al contrario, invece, l'attore Marco D'Amore, qui nelle vesti di regista, porta nel suo film Caracas (peraltro coerente già dal titolo) quelle narrazioni tipicamente sudamericane che si collocano tra il fantastico ed il realistico, tra l'utopia e la geografia. Il lungometraggio in questione pare infatti risentire di quella peculiare corrente artistica chiamata “Realismo magico” che si ritrova nelle opere di letterati quali Isabel Allende, Jorge Luis Borges, Julio Cortázar, Gabriel Garcia Marquez o Luis Sepulveda.

In una Napoli che si fa anch'essa surreale, onirica, D'Amore sovrappone sia linee temporali, sia illusione e realtà, al punto che lo spettatore prova un senso di disorientamento non dissimile da quello del protagonista del film, lo scrittore partenopeo Giordano Fonte. La prospettiva di chi guarda si fonde con quella di quest'ultimo, che nella terza età della sua vita nella sua città d'origine.

L'affermato uomo di lettere si adopera a scrivere un ultimo romanzo su di essa, che non hai dimenticato. Allo stesso tempo, però, come, cantava Francesco Guccini in “Il vecchio e il bambino” a proposito di chi vive quella fase della vita, esso fatica a distinguere il vero dai sogni, conducendo con sé lo spettatore in un quadro frammentato, dove non è immediato riconoscere cosa riguardi il quotidiano e cosa sia, invece, mera narrazione.

Se dal lato diegetico tale voluto disorientamento pizzica, per così dire, le corde del fruitore, obbligandolo a mantenere un'attenzione continua, occorre però sottolineare come, in merito alle questioni di senso, Caracas si riveli invece sorprendentemente approssimativo. Si rimane infatti perplessi di fronte al pot pourri che pone il fascismo, il cristianesimo, l'islam e persino la democrazia sotto il generico ombrello del fanatismo, al punto che sorge spontaneo domandarsi in che cosa l'essere umano debba confidare, se non ha alti ideali che lo guidano e per i quali valga la pena combattere.

Ancorché spiegabile con il probabile intento di un parallelismo tra povertà del presente e quella del passato, risulta inoltre altrettanto superficiale la rappresentazione in chiave quasi unicamente positiva degli immigrati e altrettanto quasi unicamente negativa degli italiani, soprattutto considerando che nel cuore di ogni essere umano, senza distinzione di provenienza, albergano tanto la luce e quanto l'ombra. In questo senso, appare altresì eccessivamente severo un certo approccio che mette in correlazione l'ideologia fascista con un cristianesimo che, è storicamente comprovato, in realtà la prima percepiva come indebita concorrenza nella formazione delle coscienze, sebbene se essa ne sia anche servita, come peraltro sono riusciti a fare tutti i totalitarismi.

Al di là di questi aspetti, tuttavia, Caracas si configura soprattutto come una poesia d'amore per la città di Napoli. Tirando le somme è infatti proprio quest'ultima la vera protagonista, nella miriade di storie che l'hanno composta e continueranno a comporla, e nel suo essere sì contraddittoria, controversa, ma comunque sempre suggestiva e pittorica.

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