di Lorenzo Meloni
Fra le poche buone notizie di questo inizio 2020, almeno per i cinefili, c'è sicuramente il ritorno alla regia di Richard Stanley con l'adattamento di Il colore venuto dallo spazio di H. P. Lovecraft. Ci sono voluti i ragazzacci di SpectreVision (A Girl Walks Home Alone at Night; Mandy) e la degna sfida di un racconto considerato infilmabile per sottrarre al suo limbo ormai pluridecennale il regista sudafricano, protagonista nei primi anni '90 di una fulminante stagione creativa arenatasi prematuramente nel developement hell di L'isola perduta (1996). Prima di scomparire misteriosamente dai radar, tornando ogni tanto a far parlare di sè per qualche documentario come White Darkness (2002) sul vudu haitiano, Stanley aveva fatto in tempo a lasciarci appena due film, sufficienti a imporlo come uno dei talenti più indomiti e peculiari della sua generazione.
L'(in)atteso ritorno con Colour out of Space offre un pretesto per riscoprirli, maledicendo per l'ennesima volta il destino effimero della sua carriera nel feature film. E se quel fuoco d'artificio cyberpunk che è Hardware (1990) resta ad oggi la cosa più vicina a un classico nella sua risicata filmografia, la palma del "più affascinante" spetta senza dubbio a Demoniaca (Dust Devil, 1992). Primo perchè ne mostra il lato combattivo, lui che pochi anni prima era partito camera in spalla per filmare gli scontri della guerra in Afghanistan: "Apocalypse Now nel deserto", così qualcuno ne ha definito la travagliata vicenda produttiva, quasi una premonizione del disastro che sarebbe avvenuto pochi anni dopo nelle foreste australiane, alla presenza di un Brando-Kurtz delirante almeno quanto quello del film di Coppola. Ma ancor più dei retroscena a colpire è il risultato - derivativo come già Hardware (lì Terminator, Alien, Mad Max, Blade Runner e Predator; qui almeno Hitcher e il Carpenter più occulto, di cui anticipa la deriva leoniana con Vampires) e insieme unico per come mette a frutto le radici culturali e la formazione accademica del suo autore in un tutto di stordente ispirazione cinematografica.
Su carta (e verosimilmente nei piani dei produttori britannici) Dust Devil sarebbe niente più che uno scheletro di trama slasher in salsa esotizzante: nel deserto della Namibia, un enigmatico autostoppista dall'accento texano (Robert John Burke) si fa caricare da signore sole e tristi che seduce per poi ucciderle, smembrarle e cannibalizzarle in osceni rituali purificatori; un poliziotto (Zakes Mokae) tormentato dalla morte del figlio nelle guerre d'Apartheid, si mette sulle sue tracce, mentre una donna sudafricana (Chelsea Field) che ha abbandonato casa e marito per una pausa di riflessione rischia di incrociarne il sanguinoso cammino. Ma forse - avverte il voice over - quello che incontreranno è "il vento del deserto, costretto a uccidere per liberarsi dalla sua prigione mortale, persecutore di chi è preda del rimorso". Può sembrare il C'era Una Volta di turno, l'intro da brividi a una piacevole ora e mezza di carnaio, e invece no. Come Dario Argento (di cui cita L'uccello dalle piume di cristallo) Stanley è dotato di una capacità quasi fanatica di prendere sul serio la paura e i suoi insegnamenti; per fare la sua magia ("ciò che da chiunque, dovunque e in ogni tempo è creduto..") Dust Devil ne richiede altrettanta allo spettatore, sviandolo un po' alla volta dai sentieri familiari agli appassionati del genere.
In questi rientra pienamente l'afflato politico del regista, che apparenta i suoi primi film ai capolavori del new horror americano anni '70. Certo, la ricontestualizzazione in un'Africa post-coloniale squassata dalle guerre civili è di per sè affascinante: il mostro colpisce chi è preda del rimorso, ma il vero tormento è quello del continente agonizzante che fa da sfondo ai suoi massacri. Stanley gira fra i tumulti della Namibia indipendentista e quelli razziali del suo Sudafrica, dando a questo clima di violenza le forme già viste in Hardware, dalla natura predatoria del maschio che bracca l'eroina femminile di turno, all'ombra inquietante delle potenze occidentali esemplificate dall'America (il cyborg a Stelle e Strisce del film precedente torna come autostoppista texano, spirito del Profondo Sud degli States evocato come epitome dell'oppressione razziale a tutte le latitudini). Ma per quanto affascinante banco di prova della forza archetipica dell'immaginario horror, da solo il salto geopolitico non basta a spiegare la peculiarità del suo approccio al genere.
Nè è sufficiente notarne la marcata metatestualità, che invece restituisce pienamente Dust Devil all'horror anni '90, epoca di cataloghi postmoderni come Scream e pamphlet sui meccanismi dell'illusione come Il seme della follia; o perlomeno, getta un ponte fra questa dimensione iconoclasta e quella più combattiva di qualche anno prima, dato che la costante sensazione di deja-vu cinefilo non disperde ma sembra anzi compattare e raffinare la forza del messaggio politico. Non a caso malgrado il concept horror l'iconografia continuamente evocata è quella del western, da un incipit che brutalizza Sentieri selvaggi (l'autostoppista con cappello da cowboy inquadrato dall'interno della casa in fiamme della sua vittima) lungo continui riferimenti leoniani, fino a quel tòpos sessantino della Strada Aperta che attraverso icone come Easy Rider e la doorsiana Riders on the Storm (matrice della matrice Hitcher) aggiornò il viaggio western all'epoca degli allucinogeni e della Contestazione. Un espediente, questo di tirare in ballo la storia americana e in particolare il genere più compromesso coi fantasmi del colonialismo, che ha spesso consentito ai non-americani di porre le rispettive tragedie nazionali in una prospettiva universale, risonante della koinè chiaroscurale del mito hollywoodiano. Si veda ad esempio il discusso The Nightingale (2018) di Jennifer Kent - film sull'oppressione maschilista e razzista nell'Australia dell'XIX secolo, in cui la regista non perde occasione di stabilire paralleli con quanto accadeva negli stessi anni ai neri della Georgia o dell'Alabama.
Ma il cinema non è solo quello intessuto nell'ordito iconografico, riconoscibile e interpretabile secondo le familiari logiche cinefile; è anche protagonista in un senso più viscerale, un senso che oserei definire pratico. Stanley si sceglie come alter-ego un vecchio sciamano, maestro di cerimonie e voce narrante della sua storia, gestore di uno scalcinato cinema-ranch ai confini del deserto dove si proiettano double feature di gialli all'italiana, e dove, appena fuori da una sala immersa nella sabbia, si terrà il sortilegio per sconfiggere il mostro. Qui sta il punto: per cogliere fino in fondo il carattere (anche politico) del ruolo del cinema in Dust Devil, bisogna fare qualcosa di più che interpretare allegoricamente destreggiandosi fra i molti riferimenti. Bisogna credere, o almeno essere disposti a seguire con occhi da non-iniziati, la pista di quell'interesse rituale che aveva già fatto detonare la minuziosa distopia di Hardware in un trip mistico a base di neon e musica sacra. Entra in scena il background di Stanley, figlio di una celebre antropologa di cui seguì i passi all'università di Cape Town, nonchè sudafricano (pur di origini inglesi) profondamente assorbito dai culti tradizionali della sua terra; un clima imprescindibile per mettere in prospettiva il suo cinema, soprattutto questa storia di spiriti di cui non ci stupiremmo di rintracciare l'ispirazione nel testo materno Myths and Legends of Southern Africa (1979). Ripensando infatti alle letture magico-sociali, parallele a quelle della scienza occidentale, che alcuni popoli africani storicamente hanno dato di fenomeni catastrofici come le epidemie di Aids (cfr Fabietti, 2015) ci chiediamo se sia lecito ricondurre a una simile matrice culturale la sua visualizzazione del volto violento del colonialismo nelle malefatte di un "diavolo di sabbia" dagli occhi azzurri.
Malgrado sia all'origine di tutto il carisma del suo personaggio (?!?) non ci è dato sapere quanto Stanley effettivamente partecipi di un pensiero così lontano dalla nostra quotidianità. Ma anche se le sue fossero solo le ricognizioni di un antropologo laureato, tenere a mente questo aspetto significa scorgere in Dust Devil, e in particolare nel rito cinema(g)ico che ne rappresenta la chiave di volta, una dimensione apotropaica "autentica", che fa capire - tra l'altro - perchè l'autore citasse fra i modelli western per il suo film lo Jodorowsky di El Topo. Risulta allora definitivamente impossibile derubricare la sua dimensione geostorica a pretesto per un cinema d'exploitation, provenendo essa al contrario da un profondo senso di partecipazione alle vicende dei popoli che racconta, tanto da voler in un certo senso parlare con la loro voce originaria: quella delle culture logorate e modificate dalla dominazione occidentale. Perchè il gioco regga bisogna non solo credere alla magia di un cinema "illusionista", ma (obbligando lo spettatore occidentale a un notevole sforzo d'astrazione culturale) "credere" che il cinema possa operare davvero un rito, esorcizzando il pericolo di mostri anche troppo reali. Bisogna credere al cinema di cowboy come malocchio di un conquistatore straniero, e che un film dell'orrore possa rendergli la pariglia soggiogandone e distruggendone gli spiriti malvagi. Ne nasce un'opera più unica che rara, al contempo - e a seconda della prospettiva da cui la si guarda - fiaba morale per immagini ed autentico oggetto rituale, da impugnare e da imporre: scettro incantato con cui toccare il mostro bianco e farlo andare via per sempre.
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