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COCAINE - LA VERA STORIA DI WHITE BOY RICK

Aggiornamento: 18 apr 2019


di Lorenzo Meloni

Più che celebre negli Stati Uniti, il caso di Richard Wershe Jr./"White Boy Rick" - negli anni '80 più giovane informatore FBI di sempre a soli 14 anni, poi grosso spacciatore di Detroit, fino a un gran finale da non rovinare - è invece praticamente ignoto qui da noi. Forse per questo i distributori hanno pensato a un titolo come Cocaine - la vera storia di White Boy Rick, insieme eplicativo (spaccio, storia vera, eminente personalità criminale) e fuorviante per come ammicca a tutto un modo ludico ed eccessivo di fare cinema gangster, forti anche del nome di Matthew McConaughey la cui interpretazione in The Wolf of Wall Street (2013) del massimo decano di questo cinema Martin Scorsese, è vivissima nella memoria.


Per McConaughey, prima il belloccio di tante commediole romantiche e poi già da Killer Joe (2011) e Magic Mike (2012) in cerca di una svolta, fu l'anno della grande rivelazione, del film di Scorsese ma anche dell'Oscar per Dallas Buyers Club e a un passo dallo strepitoso successo della prima stagione di True Detective. Di lì in poi, finalmente vero Big e in una botte di ferro economicamente parlando (i soli incassi di Come farsi lasciare in dieci giorni mi basteranno a pagarmi casa e cibo ancora per tre anni), la sua carriera è sempre più quella di un attore quasi-indipendente, che all'umiltà e consapevolezza del proprio range interpretativo unisce la crescente soddisfazione nell'esplorarne margini scoscesi e difficili.


In White Boy Rick troviamo due costanti del McConaughey "rinato". Da una parte la tendenza (tipica dei sex symbol con ambizioni "alte") ad imbruttirsi, come in Buyers Club smagrendo e nascondendosi dietro un antiestetico paio di baffi: non gratuitamente, ma per calare questa maschera in un mondo altrettanto respingente. Meraviglioso ritratto d'ambiente, la Detroit del film è immersiva nella sua verosimiglianza completamente priva di fascino. Strade grigie all'ombra dei fumi d'industria, night club sferzati da luci stroboscopiche, macchine della polizia parcheggiate lontano da orecchie indiscrete, per parlare, incalzare, blandire. Soprattutto, rifiuti della white trash e piccoli signori della droga afroamericani che si fondono in un'umanità perduta da bolgia dantesca.


D'altra parte, in un certo senso, McConaughey rifà Interstellar di Christopher Nolan, dov'era stato un padre (il passato) la cui parabola irradiava del proprio eroismo la vita della figlia radicandosi nel suo progetto esistenziale, fino a farne metaforicamente un essere "del futuro" che torna ancora giovane e bello ad abbracciare lei ormai anziana. Per avere White Boy Rick è sufficiente ribaltare tutto in chiave negativa, una negatività però sofferta, esposta meno in un giudizio esterno sui personaggi che non nel loro stesso dolore.


Richard Wershe Sr. - sull'omonimia di padre e figlio, che porta il profano a confonderli aspettandosi di vedere la star nei panni del celebre criminale, giocano in pari misura i distributori e lo stesso impianto narrativo - vende armi ai gangster neri della città, ma non è privo di una misera, straziante coscienza ("la droga ammazza la gente. Le armi sono un diritto costituzionale"). Junior, presto ribattezzato dagli stessi gangster "White Boy" Rick, è destinato a ripeterne il fallimento - in pari misura predeterminato e frutto d'ignavia, trappola e scelta, temuto e insieme "comodo" - spingendolo ad estremi che lo elevano ad altezza di parabola dell'intero milieu di quell'America da incubo, con particolare riferimento ai bianchi del giro che, se i neri perlomeno sanno cosa rischiano ogni giorno, fissano inebetiti la luce artificiale di un Sogno apparentemente a portata di mano, pronta a fulminarli come falene se solo tentano di avvicinarsi.

Perfetto allora il contrasto fra un McConaughey "caldo" e positivo anche in faccia all'evidenza e l'interpretazione che dà di Rick jr. l'esordiente Richie Merritt, non-attore torvo e spaventosamente espressivo, faccia e piglio quasi pasoliniani - fra la Star e l'uomo della strada ("Matthew McConaughey? E chi cazzo sarebbe?" Sembra abbia detto quando gli hanno proposto il ruolo). Ma con tutto ciò, White Boy Rick non è un teorema. E questo lo sta facendo franare un po' ovunque. La spettacolarizzazione del crimine va bene, perchè molto difficilmente ci chiama in causa. La denuncia va bene, ma non nei toni sfumati di questo "melodramma familiare" - termine che tanta critica sta usando in chiave incomprensibilmente negativa, come se fosse un male, per denigrarlo - in cui si vede davvero il marcio del mondo ma non parte la moralistica caccia alle streghe contro i colpevoli, in cui ai colpevoli (perchè tali sono, senza che ciò restringa la portata sociopolitica del film) è ancora concesso di soffrire, odiare, illudersi, stringersi in solidarietà.

Ne esce un film dolente, alle cui trappole si cede anche quando come nella parte finale esonda un po' dagli argini perché lo assiste un'indubitabile partecipazione emotiva. Ed è notevole come il regista Yann Demange (francese cresciuto in Inghilterra) arrivi al punto per vie sempre traverse: McConaughey è tanto più straziante quanto più si sforza di sorridere; la grande (anche se marginale) Jennifer Jason Leigh, nei panni dell'agente che convince Rick a infiltrarsi nel giro condannandolo a compromettersi con quel mondo, non è esattamente un villain, ma la sua stanchezza torva e inerte odora quasi di decomposizione.

Infine una sequenza magistrale, scelta fra le tante che si inseguono - spesso “non viste” - sullo schermo: gangster neri, coperti d'oro e impellicciati, scoprono dalla ragazza all'ingresso dell'arena non ha in lista i loro nomi e restano fuori dall'incontro di boxe. Segue inquadratura a precedere di loro che camminano sul marciapiede, mesti, guardandosi le scarpe. Come scardinare, senza tanto rumore, i tòpoi epici di un genere. Welcome to the cruel world.

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