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Gran Turismo

di Luigi Ercolani


Per capire Gran Turismo, bisogna fare un passo di lato, e capire da dentro le dinamiche proprie del mondo delle corse automobilistiche. Senza questo necessario passaggio, si corre (ci scuserà il lettore per il volontario gioco di parole) il rischio di prendere il presente lungometraggio per quello che per certi versi è davvero, ma per altri invece è solo parzialmente: la solita, trita, retorica e sentimentale storia all'americana.

Intendiamoci, gli elementi ci sono tutti. Un protagonista dai bassifondi appassionato di qualcosa, un empireo dorato, lontano ed accessibile solo attraverso un viottolo pieno di ostacoli ed avversari ad ogni angolo, un contesto personale che non supporta il personaggio nel suo intento (anzi, non di rado cerca di dissuaderlo), un percorso a tappe affrontato con l'aiuto di un mentore cinico e traumatizzato dalla vita, difficoltà grandi e piccole ma, infine, il meritato raggiungimento della meta conclusiva.

Nella sua storia ultracentenaria, Hollywood ha sfornato un'infinità di storie che si sviluppano su questa falsariga, storie di riscatto e successo personale in cui cambiano volti, contesti, trionfi ma la narrazione resta sempre la medesima. Anche questo potrebbe essere il caso, se non fosse che si muove in una cornice talmente particolare che merita quantomeno un passaggio ulteriore rispetto ai suoi consimili.

Si diceva appunto che è necessario fare un passo di lato, guardando in particolare a quello che ad oggi viene presentato come il grande rivale del cinema, ovvero Netflix. Tra le varie produzioni disponibili sul catalogo italiano del servizio di streaming per eccellenza, infatti, vi è anche Formula 1: Drive to survive, serie tv documentaristica di cinquanta episodi (dieci per cinque stagioni) che porta l'appassionato di corse automobilistiche dietro le quinte della Formula 1, facendo luce anche su quel lato delle scuderie che solitamente resta nascosto.

Sempre tenendo conto che si tratta di una prospettiva che mostra ciò che ha intenzione di mostrare, e quindi giocoforza comunque parziale, essa risulta ad ogni modo cruciale per vedere da vicino i piloti professionisti. Basterà anche solo un episodio perché lo spettatore si chieda cosa possa spingere una persona sana di mente ad infilarsi in un abitacolo stretto e lanciarsi a velocità inusitate su piste vieppiù letali per competere con altri come lui, per giunta rischiando letteralmente la propria vita ad ogni singola gara.

Ecco, questo interrogativo è la chiave per capire Gran Turismo. Il cui impianto è sì concepito come una classica storia all'americana, la quale però, se esaminata attraverso tale ottica, permette di immedesimarsi in quella motivazione al limite dell'ossessione ed in quella passione al limite dell'autolesionismo che sono parti integranti, e non elementi marginali, di una vita folle percorsa a velocità folli.

In aggiunta, se mostrato ai giovani, il film di Neill Blomkamp potrebbe fungere da ammonimento, ancorché travestito da motivazione. Gran Turismo incoraggia infatti un pubblico composto da una generazione che passano sempre più tempo con gli occhi incollati allo schermo di un videogioco (sul telefonico o su una console, poco cambia) a non sperimentare emozioni unicamente nel digitale, ma a sporcarsi le mani nel reale, a vedere di persona come le difficoltà della vita concreta siano sempre uno scorno più duro rispetto a quelle ben più risolvibili (perché resettabili) proprie del virtuale.

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