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Il cielo brucia

Luigi Ercolani


Premessa: per analizzare nel modo dettagliato l'ultima opera del regista tedesco Christian Petzold serve un ragionamento ad ampio spettro. Si rivela in questo senso necessario prenderla larga, anche se ciò significasse perdere di vista, per un attimo, il lungometraggio in questione.

Cominciamo, dunque, e cominciamo dal “Cogito ergo sum”, ovvero “Penso dunque sono” che sancisce l'identità che deriva dal soggetto pensante, e i relativi sviluppi. I pensieri ci definiscono in quello che siamo, nel come viviamo, nel come affrontiamo una determinata situazione o rispondiamo ad una difficoltà che ci sta di fronte.

Proprio per questo, la qualità del pensiero fa tutta la differenza del mondo. Un pensiero positivo, ci dicono gli studi, può essere terapeutico, offrendo un supporto concreto di fronte ad uno stress ed avendo persino effetti benefici tanto sul sistema cardiovascolare quanto su quello immunitario, tutelando quindi anzitutto la salute fisica.

Il pensiero negativo, di contro, invece nocivo. Quando la mente marginalizza in maniera continuativa qualsiasi input positivo e si concentra sul male la scienza infatti ha dimostrato che emergono mancanza di autostima, disturbi d'ansia o depressivi, insonnia o inappetenza per quanto riguarda gli aspetti psicologici, mentre a livello fisico si può arrivare a problemi di tipo cardiocircolatorio, mal di testa e coliti, e nei casi più gravi, addirittura demenza o morbo di Alzheimer.

Forse è proprio alla luce di queste conoscenze che Christian Petzold costruisce Leon, il personaggio principale del suo ultimo film, Il cielo brucia. Si tratta nello specifico di un giovane scrittore in crisi, che non riesce a trovare l'ispirazione per correggere un nuovo romanzo che non convince l'editore, e sotto sotto di cui neanche lo stesso autore è davvero soddisfatto.

Il regista sembra tuttavia dire allo spettatore, in maniera inequivocabile e senza sconti, che il motivo di tale crisi non è altro che il pensiero negativo. L'autore tedesco mostra infatti a chi guarda un protagonista con la smorfia perennemente imbronciata o amareggiata e uno sguardo o vacuo o torvo nei confronti di ciò che lo circonda, come se fosse quest'ultimo, con tutti i suoi ostacoli e contrattempi, ad impedirgli di procedere per una strada che, tuttavia, è lui stesso a rendere per sé stesso alquanto accidentata.

Così, mentre il mondo attorno sorride e sa raccogliere del buono anche da quel male che non nuoce completamente, Leon arranca nella vita perché lui stesso la appesantisce, alternando un'indolenza costellata di alibi a rimproveri a mezza bocca verso il suo prossimo. Un habitus mentale che di fatto provoca un perenne isolamento dello stesso personaggio, che si allontana o allontana chi gli sta accanto a causa del suo comportamento scostante.

La joie de vivre dell'amico fraterno Felix o della nuova arrivata Nadja non lo tocca minimamente, anzi, sembra essere un ulteriore motivo di inasprimento dei rapporti con il primo o di voluto distacco dalla seconda. Perché quando siamo immersi nel pensiero negativo, sembra dirci Petzold, anche la felicità degli altri può alimentare un immotivato risentimento. Che causa il maggior male, però, anzitutto a chi lo prova.


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