di Luigi Ercolani
In occasione dell'uscita del film "La Terra delle Donne" abbiamo intervistato l'attrice Paola Sini, attrice e sceneggiatrice dello stesso lungometraggio.
Come nasce questo film?
Nasce ormai nove anni fa, da una mia profonda esigenza di magnificare la mia sardità, che mi sono sempre portata dentro. Ovunque sia andata, nonostante la mia dizione pulita, quello che è successo nella mia vita ha è sempre stato accompagnato da una profonda resilienza, una profonda forza, che io devo alle radici di casa mia, della mia isola.
Ho perciò desiderato esplorare da dove provenisse questo sentirmi parte del mondo, ma con una profonda centratura che ti dà appunto la terra sarda. È un film che viene, quindi, da un attento studio antropologico su quelle che sono le origini ancestrali del femmineo sardo, e di tutto ciò che ruota attorno a questa figura così importante del matriarcato in Sardegna.
In Sardegna c'è quindi una cultura più matriarcale?
Assolutamente matriarcale! L'uomo va per la transumanza per mesi, porta le greggi per mesi fuori, e le donne gestiscono la casa, l'educazione dei figli, l'economia domestica. È una cultura profondamente matriarcale, anche se c'è un grande rispetto per l'uomo.
Quali sono state le tappe dello sviluppo?
Ho iniziato a scrivere la sceneggiatura, poi ho incontrato la regista Marisa Vallone. Abbiamo lavorato a quattro mani, perché essendo lei pugliese io avevo profondo desiderio che sentisse questo progetto nelle sue corde, che lo adattasse secondo la sua visione. Negli anni siamo cresciute, e infatti la sceneggiatura ha subito settantadue revisioni, ed è diventato un lavoro di grande consapevolezza, da ragazzine a donne.
Ho poi seguito il percorso istituzionale. La Regione Sardegna mi ha fortemente sostenuto, perché questo è un film che ha toccato quasi tutte le parti del territorio.
Si traduce quindi in un lungometraggio caratterizzato da forte folklore popolare, mi pare di capire.
“La terra delle donne” è un film che sì è in costume, che sì parla di Sardegna, ma in realtà ha un concetto estremamente universale. È un film di speranza, che accanto agli occhi appuntiti e crudi di una società che ti ingabbia in una condizione di non scelta, mostra donne che lottano per una loro evoluzione interna.
Una cosa che ci accompagna tutta la vita, indipendentemente da dove nasciamo, è la capienza del femmineo, della maternità, anche se ad un certo punto della nostra vita dobbiamo essere indipendenti a livello lavorativo pur rimanendo sempre capienze materne. Penso anche alle donne iraniane, che devono vergognarsi di avere un'istruzione, la quale invece è ciò che ci differenzia dalle bestie, e permette di esprimere la nostra identità.
Qual è il messaggio che hai voluto mandare con questo progetto?
È la consapevolezza. Nessuno, in qualsiasi parte del mondo, può dirci chi, donne e uomini, dobbiamo essere e cosa dobbiamo diventare. Anche in una condizione più buia, abbiamo il dovere di conservare la speranza e di coltivare quella sensazione che può cambiare qualcosa.
La protagonista, Fidela, che è la condanna fatta a persona, la settima bambina nata in una famiglia agropastorale, condannata ad essere la strega, scoprendo la purezza e la forza della maternità, adottiva oltretutto, impara ad amarsi e quindi la responsabilità dell'amore. E lì si manifesta l'esplosione della sua potenza interiore.
In generale, noi passiamo tutta la vita a fare ciò che gli altri desiderano che noi facciamo, a volte per sempre, e poi ci ritroviamo ad un certo punto che la nostra vita è andata. Invece è molto importante dare un orecchio interno a noi stessi, a chi siamo, alle nostre bellezze, alle nostre particolarità.
Questo film parla di come avvicinarci sempre di più a quello che siamo davvero.
Avete messo insieme un cast composito, con elementi sia italiani che internazionali.
Sì, Alessandro Haber a parte, che veste i panni di un prete romagnolo istrionico, abbiamo il personaggio di Marianna, interpretato da Valentina Lodovini, che rappresenta la donna di paese che ha l'opportunità di liberarsi da quelle che sono le esigenze volute dalla società, nel suo caso una maternità nonostante la sua amenorrea. Marianna però non riesce ad approfittare di questa opportunità in Belgio, non riesce a comprendere che può essere una donna libera, indipendente, che può amare a prescindere dalla maternità. Non ce la fa. E torna a casa incrostata di una continentalità che non è libertà, è anzi una crosta ossessiva. Non ha quindi percepito, sviluppato, una sua consapevolezza.
James, interpretato da Freddie Fox, è invece un giovane inglese, un personaggio con una profonda sindrome d'abbandono, adottato in fasce in un orfanotrofio da Mamoto (Hal Yamanouchi), un giapponese olistico e anafettivo. James soffre per tutta la vita a causa della mancanza di emozioni primarie per l’abbandono genitoriale. Arriva quindi in Sardegna con una psicosi molto profonda di trovare a tutti i costi l'affetto materno prima che quello amoroso.
Thomas, interpretato dal belga Jan Bijvoet, è un americano che rappresenta l’archetipo paterno, colui che riesce a darti uno sguardo esterno anche all'interno di un'isola nell'isola, che è appunto La Maddalena. Infine c'è Bastiana, interpretata da Syama Rayner, un'attrice italo-inglese che ritrae l'ibrido, quel qualcosa che spacca le convenzione perché è capace di ascolto interno.
Dal punto di vista attoriale, il film tratteggia la varietà di quelle che sono storture, i vizi e le virtù dell'animo umano. Ed è un film di immensa speranza.
In linea generale, questo lavoro sembra quasi dire che ovunque vai, si torna sempre da dove si è partiti.
No, è un po' diverso il concetto: chiunque tu sia, in qualsiasi condizione sociale tu possa essere, è doveroso scoprire la tua libertà interiore, quella che nessuno ti può togliere: non dipende assolutamente dal raffronto con gli altri. Uno può vivere in Sardegna nella pace dei sensi, nella condivisione animica della più alta bellezza, o soffrire di un vuoto cosmico interno pur vivendo a Roma..
Una volta che sai chi sei, puoi vivere ovunque. Io ho visto persone felici vivere in un eremo, da soli, meditando, e persone infelici vivere al centro di New York. Non dipende da dove, ma da chi sei, e da quanto sei capace di aderire a te stesso.