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Le Mans '66 - la grande sfida




di Lorenzo Meloni


È interessante notare quanti film, non solo americani e non solo di marca conservatrice, ultimamente predichino un individualismo esasperato e ferito, la cui sola rivalsa possibile sembra essere la guerra a un mondo (tutto il mondo) malvagio e corrotto oltre ogni chance di redenzione. Evidente in opere nominalmente progressiste come il Joker di Todd Phillips o Parasite di Bong Joon-ho, troppo indulgenti nei confronti delle belve umane egoriferite che ritraggono per non seppellire le loro pur giuste ambizioni di critica sociale nel sanguinario boato di un favore di pubblico che ha davvero qualcosa di inquietante, è ad esempio anche l'incubo di casa Marvel-Disney, che per un decennio ha lottato nel tentativo (paravento quanto si vuole) di conciliare superomismo e pluralismo in una formula il più possibile innocua, al riparo dalle vibrazioni negative della realtà. "Certi uomini vogliono solo veder bruciare il mondo" voleva dire una cosa in bocca a un personaggio eroico dell'ormai lontano 2008. Nel 2019 il villain è promosso a protagonista, e sembriamo sempre più disposti a spellarci le mani per "quegli uomini". Cosa c'entra in tutto questo Le Mans '66 - la grande sfida (Ford Vs Ferrari), il film di James Mangold sui due piloti (Matt Damon e Christian Bale) che ridiedero lustro all'automobilismo americano riuscendo a interrompere il quinquennale dominio Ferrari nella famigerata 24 ore di Le Mans? C'entra, perchè anche il cinema americano di questo tipo, che si vuole post-classico nella forma e (ovviamente) nel cuore, non sempre conforta i valori nazionali allo stesso identico modo, e quello della sceneggiatura di Le Mans è un caso emblematico - sebbene per la sua collocazione ovviamente meno destabilizzante rispetto a quelli citati: i tre sceneggiatori attingono alla lunga tradizione USA dedicata al loner nel suo incontro-scontro con la collettività, e così facendo riescono a giustificare un assunto di partenza imbarazzante e indesiderabile (celebrare la vittoria del Capitale contro il genio artigianale del piccolo team di Maranello capitanato da Enzo Ferrari) descrivendo Ferrari come un cowboy della "vecchia scuola" tutto valori e genuinità, che solo due fatti della stessa pasta possono permettersi di sfidare e sconfiggere all'O.K. Corral di Le Mans. Nel '66 ('67, '68 e '69) in Francia non vinsero quindi i soldi, ma gli uomini. Henry Ford Secondo (che non era il Primo, lui sì un visionario a cavallo, non certo un ammanicato o un'ameba da scrivania!) poteva spendere tutti i milioni che voleva e non sarebbe cambiato niente: quello che doveva fare era dar retta a Carroll Shelby e Ken Miles, ma decidersi non gli fu facile, e il cuore narrativo del film sta tutto nella dialettica fra chi Sussurrava ai Motori e chi non ne apprezzava la musica, fra nobile impulsività e ottuso calcolo, fra cappello a tesa larga e cravatta da Yes Man. Niente di nuovo nè di male, ci mancherebbe, ma come non vedere la differenza fra la dolce solennità con cui film come Seabiscuit (2003, sottovalutato e influente ben oltre la sua nomea) o Walk The Line (2005) dello stesso Mangold lenivano le recenti ferite dell'anima del paese, e l'aridità dei rapporti umani in Le Mans, dove non c'è niente se non la vittoria, e quando si vince - malgrado una ringkomposition in due patetici peana alla Dea Velocità - non è per la bellezza o per un'ideale etico, ma per noi stessi, e soprattutto contro gli altri, con una pioggia di fuoco e veleno su burocrati, scribacchini, addetti al marketing, tutto ciò che non è "genuino", che rimanda alle impennate d'astio conservatore (di nuovo, non per forza di destra) ciclicamente ritornanti nel cinema americano nei periodi più "neri" e sfiduciati per il paese. Al di là della sociologia, capire come soffia il vento fra il pubblico potenziale di un film è utile anche e soprattutto per valutarne l'offerta narrativa: Le Mans scintilla al sole come le macchine di Ferrari e Shelby, con le loro linee morbide, la tenuta di strada, il maestoso ruggito del motore, e in linea con gli artisti che le progettavano si pongono i realizzatori: per lo spettatore stanco di correre, di casino, di falsità, di tutta quella gente, hanno in serbo un'esperienza tattile - dunque autentica - fatta di vernici lucide, sedili in pelle rossa che scricchiola, confortanti coperture in legno - le venature esposte, caldissime - e ancora orizzonti aperti, parole franche che schiacciano quelle meschine e interessate, respiro ampio che enfatizza il suo stesso carattere classico. E se serve un nome, oggi non c'è artigiano specializzato che sia pari a James Mangold per capacità di farci sentire a casa, al riparo dalla tempesta, nel rifugio del Cinema Di Una Volta. Da sempre propenso a rimurginare sul passato storico, biografico e cinematografico, Mangold è specialista in saggi sull'icona americana che riescono a iniettare conservatorismo nostalgico senza tenersi mai troppo lontani dalle Linee d'Ombra della solitudine e dell'automartirio. Verrebbe in mente Clint Eastwood, ma con la netta differenza che (semplificando) per il maestro l'eroe o anti-eroe è un grimaldello che serve a scardinare e mettere a nudo le contraddizioni del Grande Paese, e il risultato, ancorchè moralmente rinvigorente, è quindi spesso terrificante, in ogni caso mai del tutto accogliente, mentre Mangold utilizza vizi e magagne come un pittore con una tavolozza per comporre essenzialmente grandi ritratti, problematici sì, ma che cascano molto più dalle parti dell'agiografia, quell'agiografia sporca e "sbagliata" degli outlaw, ribelli, Santi Bevitori d'America dove anche la penombra è calda, riposante, "classica", rassicurante.



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