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Le otto montagne

di Luigi Ercolani



Un pensatore rimasto purtroppo anonimo ha detto: “La montagna offre all’uomo tutto ciò che la società moderna si dimentica di dargli”. Tale concetto non comprende solo una parentesi di pace e tranquillità contro il caos materiale ed esistenziale, così come non significa una parentesi pulita in mezzo all'inquinamento fisico o a quello spirituale.

Nella sua imponente magnificenza la montagna ti mette di fronte alla tua stessa anima, rendendoti capace di cogliere di quest'ultima la dimensione infinita, contrapposta alla limitatezza del proprio corpo, del proprio concreto. E lo fa in maniera ancora più incisiva rispetto al mare, di cui si possono cogliere la grazia eversiva e la piattezza solo superficiale unicamente se lo si attraversa, non certo ammirandolo dalla spiaggia, come aveva ben capito il pittore William Turner.

Il racconto de Le otto montagne si snoda proprio attorno a queste dinamiche ontologiche, a questa riflessione che, come fanno le radici, si estende in profondità fino a toccare le corde dell'anima. E proprio in questa dimensione che va oltre la realtà sensibile i due protagonisti, il cittadino Pietro e il montanaro Bruno, insieme scoprono ciò che, tra il Mille e Millecento, aveva scoperto anche il mistico San Bernardo di Chiaravalle, ovvero che boschi, alberi, piante, rocce, pascoli, animali sono portatori di insegnamenti fondamentali tanto quanto la cultura scritta.

La grande qualità di questo lungometraggio, in tal senso, è che i due registi belgi, Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, hanno accuratamente evitato la dozzinale contrapposizione tra civiltà e natura che si rifà direttamente al mito del “Buon selvaggio” teorizzato da Jean-Jacques Rousseau, mito largamente inverosimile ma che nel cinema internazionale contemporaneo viene riproposto con continuità, anche in maniera subdola, e trova ancora numerosi proseliti.

Al contrario: qui le asperità, le difficoltà della vita di montagna, il carattere non di rado abrasivo di chi abita stabilmente sui monti, emergono in maniera evidente, senza però, dall'altro lato, lasciare spazio a un giudizio di valori intrinsecamente negativo. Semplicemente, gli autori portano in scena pregi e difetti tanto della civiltà quanto dell'ambiente rurale, mostrando come essi possano essere compatibili, persino complementari, e non, come invece vorrebbe una certa linea di pensiero, mutualmente esclusivi.

Proprio la montagna come luogo di apprendimento è, inoltre, la base ideale per sviluppare il romanzo di formazione di entrambi i protagonisti. Questi ultimi sono infatti cinematograficamente accompagnati dalla prima adolescenza fino all'età matura, e, pur venendo da contesti diversi, entrambi nella montagna trovano, a vari livelli e in momenti della loro vita, occasioni di crescita personale.

In questo senso il percorso di Pietro e quello di Bruno si dipanano individualmente, si incrociano e si separano, ma, in uno sviluppo certo paradossale ma narrativamente coerente, la loro mobilità d'animo risulta tale solo nel confronto con la staticità e l'imponenza della montagna. Mostrando allo spettatore come la forza con cui la natura orienta le nostre vite è maggiore di quella di cui l'essere umano dispone quando cerca, vanamente, di dominarla.

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