di Lorenzo Meloni
Abbiamo recuperato l’autobiografia in forma di documentario del campione, tratta da quella in forma di libro Un capitano (2018), presentata alla scorsa edizione della Festa del Cinema di Roma fra prevedibili entusiasmi ed altrettanto prevedibili rigetti. Stavolta il ghost writer non è Paolo Condò ma Alex Infascelli, che è stato con Totti nelle ore della notte precedente all’ultima partita in giallorosso il 28 maggio 2017. Mi chiamo Francesco Totti affida il racconto del giocatore all’uomo, sposando la sua prospettiva sugli eventi e correndo a tutta velocità dagli anni del “tiro a segno con palla” sulle scalinate della Città Eterna all’ingresso nelle giovanili, dallo scudetto del 2001 all’infortunio e poi al mondiale 2006, fino al triste finale tra dissapori, incomprensioni, mancato apprezzamento da parte della dirigenza.
L’occasione sprecata (come rilevato da Francesco Alò) di un racconto largo che approfondisse davvero questo emblema del calcio italiano mostrandone contraddizioni, significati storici e sociali, o più volitivamente di un’epica fluviale, parziale ma mozzafiato alla The Last Dance, sfuma a fronte di una certa sbrigatività e alla natura un po’ troppo unidirezionale del racconto, con l’inevitabile, ovviamente sincero ma per il non romanista medio indigeribile orgoglio di bandiera che impedisce di fare di Totti proprietà italiana come Jordan è proprietà americana (e mondiale) e non della sola Chicago. L’errore più grave di Infascelli è di aver fatto un film pensato per il pubblico della capitale & simpatizzanti, senza riuscire, forse senza sforzarsi, di arginare la partigianeria del pubblico, quello a favore come quello contro.
Del film invece riesce e colpisce il ritratto psicologico, con una certa capacità di rievocazione soprattutto per quanto riguarda l’Italia anni ‘80 ricca e scintillante in cui il regazzino mosse i primi passi, e la forza quasi osmotica di trasmettere la spiccata inclinazione del protagonista verso la dimensione della famiglia (enfatizzata nella fuga da un successo a volte ingestibile), con tutto il corollario di dolce indolenza e poca iniziativa – il corteggiamento da parte del Real Madrid – che fanno di Totti, “genio normale” per eccellenza, la cartina tornasole di tutta una serie di tratti dell’Italiano, non diversamente (lui che è stato a suo modo anche icona comica) dalle grandi maschere della nostra commedia.
Sicuramente divertente, appassionante e con squarci di grande fascino, Mi chiamo Francesco Totti lascia con la voglia di un approfondimento che non viene e col disappunto di un – forse inevitabile? – senso di insularità cittadina. Ma Roma non è più caput mundi da un pezzo: non basta, si poteva fare molto di più.