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Riscoprire "Community"



di Lorenzo Meloni


Seppur su scala internazionale, Community ha subito negli ultimi anni un destino non troppo diverso da quello della nostra Boris. Le due sit-com metanarrative per eccellenza condividono uno status di culto in continua crescita, con una fanbase che si allarga a ondate successive testimoniandone la qualità a dispetto, anzi in virtù, del passare del tempo. Così come Boris – confermando ironicamente la sua satira della televisione mainstream italiana – era stata dapprima serie per pochi, troppo raffinata per il pubblico Rai di prima serata, ripopolarizzandosi progressivamente con le trasmissioni successive fino alla definitiva affermazione seguita allo sbarco su Netflix, così la geniale serie di Dan Harmon su sei adulti disfunzionali costretti a rifare il college (per di più pubblico, quindi nella concezione USAper poveracci) ha lottato stagione dopo stagione per un rinnovamento mai certo, fra defezioni e leggendari disastri produttivi. Il culto però è sopravvissuto, e dopo essere chissà come arrivata alle sei stagioni reclamate dai fan nella famosa petizione #sixseasonsandamovie, Community (anche qui con un aiutino da Netflix) non ha fatto che crescere nella percezione collettiva.


Il suo è un caso abbastanza in controtendenza rispetto a quella che è stata l’evoluzione del genere sit-com negli anni 2000 e 2010. Mentre serie infinitamente più popolari come How I Met Your Mother rinunciavano sempre più alle classiche formule autoconclusive per sdoganare il concetto di narrazione orizzontale, Community aveva trovato una sua via estremamente personale all’autoconclusività riuscendo però a non restare indietro in quanto a capacità di elaborazione progressiva delle tematiche trattate. La formula magica consiste nel dedicare ogni episodio a un genere, e nel trasformare ogni genere in un micro-universo citazionista di cui a sua volta fare il prisma attraverso il quale si guarda la realtà. Una realtà gigantesca per densità di spunti psicologici e socio-politici, che in qualche modo quest’elezione a metodo di una vera e propria schizofrenia espressiva riesce a imbrigliare, plasmare e ritrasmettere con effetti tanto divertenti quanto illuminanti.




Come per molto cinema postmoderno del decennio precedente (non a caso Pulp Fiction è trattato come un vero e proprio totem) a Harmon e soci interessa anche e soprattutto tracciare una fenomenologia dell’uomo/donna moderni costantemente irretiti e implicati nella narrazione audiovisiva, come ci ricorda il personaggio di Abed (Danny Pudi), enciclopedia vivente di cinema, televisione e cultura pop in genere cui spetta il compito di filtrare ogni nuova svolta narrativa attraverso il riferimento ai modelli narrativi su cui sempre più abbiamo basato la nostra vita, e che non di rado appare come vero e proprio deus-ex-machina, coscienza interna meta-narrativa dei realizzatori.


A proposito di questi ultimi, oltre al già citato showrunner e allo strepitoso cast d’insieme vale la pena ricordare almeno la presenza di due registi d’eccezione nelle persone dei fratelli Anthony e Joe Russo. Si dice che proprio la padronanza qui dimostrata di tutte le sfumature del linguaggio audiovisivo (dall’horror all’action, dal western alla fantascienza, dal comico puro al drammatico, dal thriller al musical alla distopia) abbia in seguito convinto il team di Kevin Feige ad affidare loro alcuni dei film più importanti e difficili del Marvel Cinematic Universe, a cominciare dall’action-thriller con sfumature sociopolitiche anni ‘70 alla Tre giorni del Condor di Captain America: Winter Soldier (2014). Se i Russo l’hanno fatto sembrare un gioco da ragazzi, guadagnandosi abbastanza fiducia da vedersi poi consegnare le redini di operazioni mastodontiche come Civil War, Infinity War ed Endgame, lo si deve anche alla gavetta fatta in questa serie-prodigio, i cui attori protagonisti gli appassionati potranno riconoscere in una serie di cameo/easter egg disseminati nei film Marvel dei Fratelli.


Un dovuto e sentito omaggio a chi ti ha fatto crescere, ripetere la scuola, insegnato tutta la vita che c’è nel cinema e il cinema che c'è nella vita.





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