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ROCKETMAN: IL VERO MUSIC BIOPIC?

Aggiornamento: 23 set 2019

di Lorenzo Meloni


Si sente spesso paragonare in positivo Rocketman a Bohemian Rhapsody, il film sui Queen e Freddie Mercury che pochi mesi fa ha stabilito il primato di incassi di ogni epoca per una biografia musicale, avviando una moda destinata ad accompagnarci probabilmente per diverso tempo. Dove il film di Bryan Singer è "leggero" e "patinato", quello di Dexter Fletcher (già al lavoro sulle ultime due settimane di riprese di Rhapsody dopo la clamorosa debàcle di Singer) sarebbe "onesto", "incisivo" e soprattutto non eufemistico - la critica più ricorrente al biopic sui Queen, accusato di aver glissato disneyanamente sulla sessualità di Mercury e sulle Mille e Una Notte della sua vita da party.

Rocketman sta però incassando molto meno di Bohemian Rhapsody, e se non si può sottovalutare la maggior mitizzazione post-mortem del povero Freddie rispetto a un artista altrettanto geniale come Reginald Dwight/Elton Hercules John, e se gli incassi non sono ovviamente (l'unico) criterio di qualità, che un film che deve evocare - prima ancora di tentar di interpretarlo - un fenomeno di grande successo popolare incassi più o molto più di un altro, ha eccome il suo peso. E proprio qui sta il punto. Rocketman è meglio scritto, meglio recitato (da un clamoroso Taron Egerton), col doppio della personalità e quasi in ogni senso migliore di Bohemian Rhapsody, che però mutua dal suo protagonista una lezioncina sempre attuale: the show must go on.

Era già stato il problema di un'altra e ben più ambiziosa biografia, The Doors (1991) di Oliver Stone, che dalla promettente costruzione di una splendida atmosfera californiana da summer of love si chiudeva sempre più in un vortice di droga, sesso e alcool in cui Jim Morrison - magari perfettamente "realistico" - non aveva però senso cinematografico nè come artista (composizione e performance perdevano progressivamente importanza) nè di conseguenza come topo da bar bukowskiano, perchè di gente che beve è pieno il mondo, mentre a noi premeva sapere, possibilmente sentire, come mai quel particolare ubriacone avesse marchiato a fuoco il sound e la mistica di un'intera generazione.


Per un po', a Rocketman il cocktail arte-vita-stagioni all'inferno riesce meglio che al film di Stone. Elton si siede in costume da diavolo a una riunione degli Alcolisti Anonimi e rabbiosamente inizia a raccontare la sua storia - storia di grigie casette inglesi e famiglie disfunzionali all'alba dell'era rock n' roll, raccontata col ghigno grottesco e antipatico (e soprattutto musical) di un film di Ken Russell, magari quel Tommy (1975) in cui proprio lui rubava la scena con una travolgente versione pianistica della who-iana Pinball Wizard. Non ancora sir, non particolarmente grazioso o amabile, sta già per prendersi il mondo: corre per le strade inneggiando al saturday night, percuote il piano come se gli avesse fatto un torto, si commuove per uno stornello country di Marty Robbins, ma poi lascia l'anima sul palco come uno dei soulmen afroamericani che accompagna nei loro tour inglesi.

C'è insomma una riuscita compenetrazione fra dato biografico, tradito in chiave favolistica e reso dubbio dall'inaffidabilità dell'(auto)narratore, e la celebrazione di una verità - quella musicale - incontestabile, ma anche intrinsecamente volatile e oltremondana. Fuori dai denti, il film funziona finchè tradisce la realtà, che in questo tipo di film è rilevante solo nella misura in cui trova e giustifica un'adeguata dimensione spettacolare. Quel che si rimprovera a Bohemian Rhapsody è esattamente quel che Rocketman fa (e lo fa sicuramente meglio) nei suoi momenti migliori, per poi indebolirsi quando, ormai chiuso sul dramma psicotico del suo protagonista, inanella una dietro l'altro scene musical smorzate in partenza dal suo autorifiuto, slabbrate in modo sicuramente voluto, ma non per questo più trascinante. A forza di verità, oltre ad annoiarci, potremmo trovarci a rifiutare le tonnellate di zucchero di quell'autocelebrazione finale. Un problema che il film di Singer non poneva, perchè nella sua mediocre semplicità non dimenticava mai di esistere esclusivamente in funzione del Mito.



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