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Siccità

di Luigi Ercolani

Se è vero, come cantava Fabrizio De André in “Il Bombarolo”, che “c'è chi aspetta la pioggia/per non piangere da solo”, Paolo Virzì in Siccità mostra agli spettatori cosa succede quando coloro che piangono, invece, di pioggia non ne hanno. E l'ottimo regista livornese lo fa in uno stile che dosa sapientemente il melodramma e allo stesso tempo ha il merito di non eccedere in quanto a piattezza: insomma, coerentemente con il filo rosso che guida la storia, da questi presupposti prende vita un lungometraggio piacevolmente asciutto.

In Siccità non c'è un unico protagonista. Il cast corale dipinge infatti, innanzitutto, un quadro in cui i protagonisti sono i cittadini di Roma, tutti, con le loro storie e i loro drammi personali, i quali tuttavia si inseriscono, nell'unico dramma generale esperito dalla capitale. Pur vivendo tutti insieme la carenza di bene fondamentale come l'acqua, ça va sans dire, non si trovano tutti sullo stesso piano: le persone più

facoltose hanno tutti i comfort, e tramite il loro denaro e i loro appoggi riescono ad accedere a più risorse idriche rispetto a quanto viene imposto alla classe media, e possono quindi soddisfare anche quei vizi a cui, in tempo di crisi, sarebbe moralmente opportuno rinunciare.

Ecco quindi che, in un contesto tanto emergenziale, i sacrifici di fatto pesano, anche a causa di una narrazione mediatica a senso unico (condita di una retorica vuota e fintamente solidaristica), solamente sulle spalle della sola popolazione meno abbiente, la quale finisce per sfogare quasi sempre internamente le tensioni che derivano dalla problematicità della situazione che Roma sta vivendo. Certo, ci sono proteste verso i benestanti, ma alle orecchie di questi ultimi tali lamenti risultano fastidioso rumore. Il significato che qui possiamo ritrovare è duplice: da una parte che il primo male di una grave crisi risulta l'egoismo dei più forti e la loro mancanza di solidarietà verso i più deboli, e dall'altra che ciò che proprio i più deboli non devono fare in questi casi è perdere l'unità, la compassione reciproca e la volontà di supportarsi vicendevolmente nel momento della prova.

Per certi versi, tali elementi fanno di Siccità è un film che da lontano potrebbe ricordare il contesto narrativo in cui si sviluppa Il Cavaliere Oscuro-Il ritorno (Christopher Nolan, 2013), tratto peraltro da una saga fumettistica di Batman chiamata Terra di Nessuno (1999). La differenza sostanziale, tuttavia, è che qui non solo le autorità ci sono e fiancheggiano i più forti, ma per giunta non c'è alcun eroe pronto a levarsi per difendere la popolazione. Ma anche questa scelta ha un risvolto positivo, perché significa che qui tutti i coinvolti sono chiamati ad essere essi stessi piccoli eroi del quotidiano, padri e madri, mogli e mariti, figli e genitori. La responsabilità civile non è più, quindi, coercizione morale propagandata dall'alto per proteggere gli interessi dei più abbienti, ma atto di compassione verso il prossimo che parte da ogni singolo individuo.

In questo dramma collettivo a sfondo sociale, a conti fatti, Virzì riversa in un buona sostanza ciò che abbiamo vissuto nel contesto emergenziale vissuto dall'inverno 2020 in avanti con la questione pandemica. Roma, in questo senso, viene adattata come contesto in piccolo di un macrocosmo più esteso per una rilettura acuta, tagliente e in diversi aspetti molto verosimile a quanto accaduto realmente nel nostro paese. In tale rilettura ciascuno può riconoscere parti del proprio dramma personale, sentendo Siccità come un film che parla alla parte più provata del proprio vissuto.



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