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"The Furnace" a Venezia 77




di Lorenzo Meloni


Australia occidentale, ultimi anni del XIX secolo e del regno di Vittoria. Per la prima volta si vedono dromedari solcare le dune dei deserti. Li hanno portati per la corsa all’oro i cammellieri "ghan", dispregiativo usato dai bianchi anglosassoni in riferimento a chiunque provenga dal Medio Oriente o dal subcontinente indiano: Arabi, Indiani Sikh e Afgani come Hanif, che è riuscito a farsi accettare dagli Aborigeni e ora caccia con loro il canguro e il varano. Animali autoctoni (anzi endemici) del paese in cui vivono, a differenza di quello che cavalca e di lui stesso. Ma The Furnace di Roderick MacKay documenta uno strano caso di acclimatamento: oggi i dromedari che popolano quei deserti sono oltre un milione, e molti australiani hanno nelle vene sia sangue aborigeno che "ghan". La conferma finale, speranzosa, della possibilità di questa convivenza è ciò che distingue il film da altri simili visti negli ultimi anni, quando è diventato piuttosto usuale cercare negli spazi sconfinati e nella poco conosciuta storia australiana terreno per riflessioni storiche in odore di western. Niente saghe eroiche però: si salta a piè pari l’epopea classica per approdare a un revisionismo radicale e cruento, che non solo condanna senza appello l’avanzata dell’uomo bianco come catastrofe genocida guidata dalla fame di profitto, ma dipinge la storia coloniale del paese alla stregua di una vera e propria Stagione all’Inferno dove violenza criminale e violenza militare gareggiavano in crudeltà.

Per gran parte The Furnace risponde perfettamente a questa descrizione. Lo sprovveduto e innocente Hanif, sul punto di compiere il rito iniziatico che lo legherà per sempre alla sua tribù d’adozione, stringe un patto col Diavolo incarnato da Mal, più bushranger alla Ned Kelly che cacciatore d’oro, autore della sanguinosa rapina che ha messo le forze dell’ordine della zona in cerca dell’oro perduto di Sua Maestà Britannica. Insieme devono attraversare il deserto e raggiungere una fornace dove fondere quell’oro, inutilizzabile finché porta il marchio della regina. Un po’ alla volta Hanif scopre in sé l’ambizione e la Febbre dell’uomo bianco, capace (in radicale opposizione all’etica western di Ford e Hawks) di bruciar via col suo sole rovente ogni traccia di civiltà come l’insegna da quei lingotti.

Ci vorrà un po’ perché il suo violento viaggio di perdizione si riveli invece iniziatico, forse proprio surrogando quel rituale del Walkabout a cui Nicolas Roeg dedicò uno dei più bei film ambientati nel mondo aspro e marziano del bush (1971). Dopotutto forse Mal non va fiero dei massacri compiuti in passato fra i nativi. Forse non è nemmeno l’oro che vuole, ma l’oppio dei suoi contatti cinesi per obliare se stesso e le sue colpe. Il cane bianco lascia la scena dopo essersi affezionato alla sua preda, figura ormai quasi paterna. Il giovane “ghan” - spedito in quel posto dimenticato da Dio da un vero padre interessato solo ai giacimenti auriferi – ritrova l’abbraccio della sua seconda famiglia. L’impronta della lunga mano di Londra, almeno per un po’, è sparita da tutti loro: il fuoco del deserto li ha resi liberi.

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