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Unorthodox



di Lorenzo Meloni

Continuiamo ad occuparci di televisione per cogliere gli spunti offerti da questa miniserie tedesca in quattro puntate distribuita da Netflix, che ha già fatto discutere per le sue caratteristiche di documento antropologico “dall’interno”, avendo portato la cultura e la lingua yiddish all’attenzione del pubblico internazionale come nessun altro prodotto audiovisivo in precedenza. Unorthodox (sottotitolo “lo scandaloso rifiuto delle mie radici chassidiche”) adatta con una certa libertà l’autobiografia di Deborah Feldman, fuggita dalla comunità ebraica ortodossa di Brooklyn perché insofferente alla rigidità dei suoi rituali e delle sue regole.

Espandendo il suo racconto secondo modalità “hollywoodiane” (l’alter ego di Deborah, Esty, è un’aspirante musicista che cerca asilo, conforto e speranza in un conservatorio di Berlino) la serie compie almeno due piccoli miracoli di caratterizzazione, tanto più commoventi quanto più in conflitto fra loro: da una parte lo spaccato semi-documentaristico della Comunità, tridimensionale di dettagli e pieno di figure complesse pur nel breve tempo loro concesso, culminante nel doppio ritratto del marito di Esty (timido, pienamente appartenente al suo retaggio eppure in qualche modo altrettanto curioso del mondo esterno) e del cugino spregiudicato, contraddittorio, inquietante che lo accompagna nella ricerca della moglie scomparsa; dall’altra la parabola della ragazza, le difficoltà del suo acclimatarsi alla realtà che ha scelto, il dolore palpabile dello sradicamento che sfocia nella catarsi totale di un finale davvero da plauso.

Al di là del suo valore narrativo e documentario - supportati da un livello tecnico adeguato e da interpretazioni di serie A - Unorthodox diventa particolarmente interessante (e problematico) quando si guarda alla sua agenda politica, che partendo da due scopi onorevoli come l’illustrazione veridica di un contesto culturale e il racconto di un’impossibilità a conformarvisi, rischia, per l’inevitabile parzialità derivante dall’adesione al punto di vista della “fuggitiva”, di compromettere l’integrità del primo, finendo per ridicolizzare o perfino demonizzare un’intera cultura a dispetto (o più sottilmente “in forza”) dell’indubbio impegno profuso nel tratteggiarla.

In particolare, l’inclusione nel catalogo Netflix permette di leggere la serie con riferimento alle politiche culturali dell’azienda, contraddistinte da una sintonia sempre maggiore con le poderose spinte progressiste che negli ultimi anni hanno scosso fin nelle fondamenta il cinema e la televisione americani, specchio di una società occidentale (per quanto la definizione risulti sempre più evanescente) via via più sensibile alle istanze del femminismo, delle tematiche razziali e della comunità lgbt. Serie Netflix appartenenti ai generi più disparati hanno abbracciato in pieno questo rinnovamento culturale, con un’attenzione ai suoi delicati criteri selettivi che ormai si può dire pienamente introiettata nelle sue linee editoriali.

Se però Sex Education, The Witcher o Suburra, per fare tre esempi geograficamente e narrativamente distinti, operano efficacemente in direzione di una normalizzazione della diversità discriminata, proponendo leading character femminili o queer o addirittura (come nel caso della prima) tematizzando l’empowerment e la presa di possesso della propria sessualità, l’approccio di un Unorthodox - sacrosanto nella sua rivendicazione della libertà di costume per Esty, così come per ogni uomo o donna che sentisse le tradizioni di appartenenza come un vincolo alla propria identità – si rivela invece molto più problematico nella sua pretesa (raramente esplicita ma proprio per questo più insinuante) di bollare tali tradizioni come tout court inconciliabili con la crescita armonica dell’individuo. Il rischio insomma è che la condivisibile perorazione delle cause dell’inclusività possa in certi casi sfociare in una “caccia alle streghe rovesciata”, finendo per squalificare aprioristicamente determinate posizioni sociali o spirituali. Rischio che fornisce uno spunto di riflessione non peregrino sulla natura ambigua di tale inclusività, interpretabile (anche) come ennesima forma di un’egemonia culturale che nega se stessa soltanto a parole. La visibilità che Unorthodox ha dato alla lingua yiddish e all’ortodossia ebraica finisce così per avere un gusto dolceamaro, oscillante fra l’effettivo piacere della scoperta e la denuncia di un mondo percepito come retrogrado, forse (sarebbe molto triste) perfino senza diritto di cittadinanza.

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