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UNSANE


di Lorenzo Meloni

Ci eravamo lasciati con Steven Soderbergh e l'ingegno del suo La truffa dei Logan. Neanche un mese e mezzo dopo ci ritroviamo con Unsane, di cui la critica sta dicendo meraviglie. E ci mancherebbe, viene da aggiungere. Sfiduciato dal mezzo-cinema fin dagli esordi ma fra i suoi più febbrili e coraggiosi alchimisti, sovversivo vero ma da dentro Hollywood, ogni volta che pensiamo di averlo incasellato lo schiaffo arriva più forte. Unsane non fa eccezione: basterebbe la sfida tecnica di girare un film valendosi solo di un iPhone, con un milione e mezzo di dollari (che per chi è poco pratico significa più o meno "niente") e in una settimana. Non sarebbe necessario che il film in questione fosse anche - se (forse) non il suo migliore in assoluto - certamente per quanto riguarda gli ultimi tempi, ed uno dei migliori dell'anno.

Hendrix andava veloce sulla chitarra, nessun dubbio. Ma non è questo a farne il più grande. Più veloci (come più perfetti, più levigati ecc) ce ne sono stati e ce ne saranno. Ma non più "soulful", densi, struggenti. Cioè: va bene la difficoltà tecnica. Ma al fondo, perchè girarlo con un cellulare? La truffa dei Logan ci aveva avvertiti, come il mare che si ritira prima dell'onda anomala. Ce n'erano proprio tanti di iPhone, in quel film che raccontava in chiave ironica e nostalgica il dolore di una società senza più terra sotto i piedi, il vuoto di valori e di legami malamente stuccato con le bugie e i falsi sorrisi di un gigantesco baraccone mediatico. In fondo uno scherzo (per quanto coi denti affilati) e in chiusura perfino una carezza. Il mare che si ritira. Poi lo Tsunami: arriva Unsane.

Che impasta le stesse tematiche, aggiungendo alla ricetta qualcosa di più, ma sterza pericolosamente dall'America azzurra e solare di John Denver verso le viscere oscure del thriller. Stavolta la canzone che fa capolino nei dialoghi non è Country Roads ma Walking after Midnight dell'usignolo maledetto Patsy Cline: "camminando dopo Mezzanotte", la sintesi perfetta dell'esperienza di noi spettatori che andiamo a tentoni come attraverso i boschi addormentati della Pennsylvania su cui si apre il film, il cuore in allarme e le mani tese. Continuamente spiazzati dalla sua impressionante densità di spunti, suggestioni, vicoli ciechi e nuovi sentieri.

Senza scendere troppo nel dettaglio possiamo dire che racconta la storia di una "self-made woman" (Claire Foy) la cui carriera in un prestigioso istituto bancario va sempre più a gonfie vele. Ma non il suo equilibrio mentale: la brutta avventura con uno stalker l'ha segnata nel profondo; ha tagliato i ponti con amici e familiari, è sgarbata e odiosa coi colleghi, vede il suo persecutore in chiunque. Raccontare lo snodo successivo (parliamo dei primi 10 minuti) è già antipatico, limitiamoci a dire che ciò che segue assomiglia molto a una versione incupita, ulteriormente straniante e senza il minimo spiraglio liberatorio di Qualcuno volò sul nido del cuculo.

Ma è il genere di film che a spiegarlo lo si rovina. Soderbergh è stato capace di far coincidere la mania di un personaggio e la follia di un sistema e ci fa perdere i riferimenti, non si è mai del tutto sicuri di chi appoggiare emotivamente. Fra le tematiche affrontate la violenza sulle donne, la paura americana (ma non solo) del complotto, la disgregazione dei valori familiari già vista in La truffa dei Logan, la brutalità di ogni relazione di potere, e ovviamente l'inaffidabilità dello sguardo sul mondo filtrato dal congegno che ogni singolo giorno della nostra vita abbiamo in mano. Al fondo, è un film sulla capacità straordinaria degli uomini di crearsi da sè i motivi per avere paura. E non c'è niente che faccia paura come ciò che creiamo noi, senza permetterci di razionalizzare. Non scorre molto sangue in Unsane. Ma ci obbliga continuamente a fare proprio questo. Ed è peggio.

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